Startup italiane: uscire dal piccolo è bello. Il caso AWMS

scritto da il 14 Agosto 2025

Post di Jacopo Pertile, co-founder AzzurroDigitale e Board Member AWMS

In Italia, una startup che chiude con successo il proprio ciclo di vita – dallo sviluppo al passaggio di consegne – fa ancora notizia. È un’eccezione che alimenta lo storytelling dell’impresa coraggiosa, dell’eroe solitario che ce l’ha fatta. Ma non dovrebbe essere così.

Nel mondo dell’innovazione, l’exit non è un punto d’arrivo, ma un passaggio naturale. Un segnale che un’impresa ha saputo generare valore, intercettare un bisogno reale, crescere abbastanza da diventare parte di qualcosa di più grande. Il fatto che da noi accada così raramente dovrebbe farci riflettere.

Nel 2024, in Italia si sono registrate circa 34 exit di startup, quasi tutte tramite M&A, con una sola IPO. La percentuale di startup che arrivano a un’exit resta tra il 10 e il 15%, molto al di sotto delle medie europee. In Europa, nonostante una maggiore maturità dell’ecosistema (oltre 2.400 round per 17 miliardi di euro raccolti solo nel primo trimestre 2025), le exit restano comunque complicate: frammentazione, cultura del fallimento ancora debole, poche grandi tech company acquirenti. Eppure, rispetto all’Italia, l’Europa corre, posizionandosi nella top 10 per numero di exit. Numeri che ci dicono chiaramente una cosa: il nostro ecosistema cresce, ma non scala.

La distanza dagli Stati Uniti. Ma il piccolo non scala

Negli Stati Uniti, invece, tutto questo è fisiologico. Le exit sono migliaia ogni anno, sostenute da capitali ampi, una cultura che valorizza il rischio, e grandi player disposti a investire su tecnologie e persone. L’exit, lì, non è una notizia: è il modello.

In Italia, invece, ancora troppo spesso vincono la frammentazione, l’autoreferenzialità, il culto del “piccolo è bello”. Ma il piccolo, da solo, non scala. E senza scale, nessuna idea può trasformarsi in impresa, e nessuna impresa può diventare sistema.

È in questo contesto che si inserisce il caso di AWMS: un’eccezione che conferma la regola, e forse – ce lo auguriamo – anche un segnale di cambiamento.

AWMS nasce da un bisogno concreto segnalato da un cliente industriale: ottimizzare la gestione della forza lavoro in fabbrica. Da un primo progetto su misura si sviluppa una soluzione replicabile, validata da cinque clienti paganti. Dopo un round pre-seed con business angel, AWMS attira l’interesse di un partner industriale strategico, che guida il seed e struttura un percorso di acquisizione progressiva. L’exit avviene con continuità manageriale e obiettivi chiari di integrazione, segnando un raro esempio italiano di spin-off industriale cresciuto, scalato e venduto secondo logiche da vera startup tech.

La capacità di fare rete e non solo startup

AWMS è nata in AzzurroDigitale, è cresciuta al suo fianco, si è distinta e ha trovato il proprio spazio. È un percorso che rivendichiamo con orgoglio: un esempio concreto di come si può generare innovazione strutturata anche fuori dai grandi poli tradizionali.

Questa non è una storia di genialità individuale. È il frutto di una rete: investitori, partner industriali, clienti visionari, persone con ruoli ben definiti. Una rete che ha saputo valorizzare le intuizioni, accompagnarle nel tempo, dare loro struttura. Senza questo ecosistema, AWMS sarebbe probabilmente rimasta una buona idea.

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Il piccolo, da solo, non scala. E senza scale, nessuna idea può trasformarsi in impresa, e nessuna impresa può diventare sistema (designed by Freepik)

Ed è proprio qui che si gioca la partita del futuro italiano dell’innovazione: nella capacità di fare rete, e non solo startup.

Una startup è fragile per definizione. Vive di velocità, di incertezza, di prototipi. Per crescere, ha bisogno di partner solidi: grandi imprese, investitori pazienti, hub tecnologici, università. Ha bisogno di essere messa alla prova sul campo, di confrontarsi con processi industriali complessi, di imparare a “stare a sistema”. Questo non è limitare l’innovazione: è l’unico modo per renderla concreta.

Non più unicorni, ma più connessioni

In Italia ci sono numeri importanti: oltre 15.000 startup e PMI innovative, 11 miliardi di fatturato complessivo. Ma c’è anche un problema strutturale: la maggior parte resta piccola, isolata, priva di ponti verso il mercato e l’industria. Secondo Bankitalia, la nostra capacità di trasformare ricerca in impresa resta modesta. Lo vediamo ogni giorno: progetti brillanti che si perdono per mancanza di alleanze, capitale, direzione.

I Corporate Venture Capital, gli acceleratori, i fondi pubblici e gli strumenti a supporto dell’innovazione stanno facendo un lavoro importante. Ma serve qualcosa di più profondo: una cultura industriale dell’innovazione che metta la collaborazione al centro. Che non si limiti a finanziare, ma che accompagni. Che non metta in contrapposizione startup e imprese mature, ma che le faccia dialogare.

Il nostro ecosistema non ha bisogno di più unicorni, ha bisogno di più connessioni. Di passaggi di testimone. Di contaminazione tra mondi diversi. Di figure che sappiano tradurre, mediare, integrare.

Perché l’exit non è un tradimento dell’idea iniziale

L’Italia è un Paese che ha eccellenze diffuse, ma che spesso non sa fare sistema. Nell’innovazione, questa frammentazione diventa un freno. Ecco perché dobbiamo cambiare paradigma: premiare chi collabora, non chi si chiude. Facilitare i passaggi generazionali, tecnologici, imprenditoriali. E smettere di considerare l’exit come una resa o un tradimento dell’idea iniziale.

Oggi più che mai, imprenditori, investitori e manager di grandi imprese hanno l’opportunità – e la responsabilità – di contribuire a un cambiamento culturale nel sistema dell’innovazione italiano.

Non si tratta solo di finanziare, ma di accompagnare. Non basta sostenere singoli progetti: serve costruire alleanze, valorizzare le connessioni, integrare competenze e visioni. Servono aziende disposte ad aprirsi al confronto, investitori pazienti, soggetti capaci di mediare tra mondi diversi e di trasformare idee in impatti concreti.

AWMS dimostra che è possibile.

Ora la sfida è fare in modo che non resti un caso isolato, ma diventi un modello. Un punto di partenza, non un’eccezione.