categoria: Vicolo corto
Affinità e divergenze fra il disordine mondiale del 1914 e l’attuale


Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –
Da qualche tempo preoccupanti “venti di guerra” soffiano con sempre maggiore frequenza. Non si tratta, almeno per ora, di tempeste globali, ma di tormente locali o di semplici folate che attraversano l’Europa orientale, il Medio Oriente, il Pacifico. L’indesiderabile ipotesi di un conflitto mondiale rimane nonostante tutto ancora lontana, ma sarebbe ingenuo negare che multiple condizioni di instabilità sistemica si stiano accumulando e che il rischio meriti un’analisi seria. Non per indulgere alla profezia catastrofica, ma per distinguere le paure reali dai riflessi condizionati che il dibattito pubblico e mediatico propongono.
Un’analisi sobria non può che partire dall’evidenza che non viviamo in un’epoca “pacificata”. Al contrario, la frammentazione del sistema internazionale, la corsa alle materie prime, la ridefinizione delle catene produttive e l’irrompere di nuove tecnologie accentuano la sensazione di un ordine mondiale instabile o, sarebbe meglio dire, di un disordine globale crescente. In questo contesto, domandarsi se i “venti di guerra” possano gonfiarsi fino a trasformarsi in “tempesta mondiale” non è un esercizio retorico, ma un modo per comprendere quali dinamiche profonde stiano ridefinendo il nostro tempo.
Non c’è un Hitler del 2025, ma uno scontro fra potenze sazie e affamate
Se osserviamo il discorso pubblico occidentale, il riferimento storico dominante in questa complessa fase è quasi sempre lo stesso: il 1939. Putin diventa il nuovo Hitler, l’Ucraina assume la veste dell’Austria, dei Sudeti o della Polonia, e lo scontro viene raccontato come una battaglia epocale tra democrazie liberali e regimi autoritari. È una narrazione suggestiva che riduce il presente a un dramma morale di facile comprensione, ma proprio per questo rischia di essere ingannevole.
Il paragone con il 1939 dà l’illusione di chiarezza, ma oscura le contraddizioni reali. Allora si trattò di una sfida portata avanti da un progetto totalitario aggressivo, in primo luogo, contro un blocco di società liberali indebolite. Oggi, invece, non esiste un Hitler contemporaneo con un’ideologia totalizzante, né un fronte coeso di democrazie pronte a difendersi in blocco. Il sistema internazionale è un mosaico molto più frammentato: alcune potenze difendono l’ordine esistente perché ne traggono vantaggi consolidati, altre vorrebbero modificarlo perché lo percepiscono come una gabbia che limita la loro espansione.
È questa contrapposizione — fra potenze “sazie”, che raccolgono pienamente i frutti dell’espansione economica globale, e potenze “affamate” o “sovvertitrici”, che rivendicano un riequilibrio a offrire una chiave interpretativa più utile. Non la contrapposizione morale democrazie/autocrazie, ma quella più strutturale fra chi difende lo status quo e chi lo vuole mettere in discussione e da questo punto di vista, lo scenario attuale assomiglia molto più a quello che precedette la Prima guerra mondiale che non a quello del 1939.
Ed ecco le affinità con il 1914
Se vogliamo comprendere l’attuale disordine mondiale, il riferimento più pertinente è il 1914. Non perché le situazioni siano identiche, ma perché la logica sistemica che portò alla Prima guerra mondiale presenta tratti sorprendentemente simili a quelli di oggi. Allora come oggi il mondo era attraversato da alleanze rigide, che riducevano lo spazio per soluzioni diplomatiche flessibili. Allora come oggi la globalizzazione economica era molto avanzata, ma fragile, e conviveva con tensioni geopolitiche crescenti. Allora come oggi nuove tecnologie stavano maturando, pronte a trasformarsi in strumenti di potenza militare.
Il 1914 non fu il risultato di un piano preciso di conquista globale, ma dell’incastro tra poteri sazi, che difendevano lo status quo, e poteri affamati, che lo volevano sovvertire. Sarajevo fu la scintilla, non la causa: il conflitto era inscritto negli squilibri del sistema. È questa dinamica che oggi torna a riproporsi: il rischio non è tanto l’avvento di un nuovo Hitler, ma la possibilità che un incidente in una zona periferica – Ucraina, Taiwan, Medio Oriente – inneschi un meccanismo a catena, come accadde con l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando.
L’interdipendenza che nascondeva squilibri profondi
Per capire perché il paragone fra 1914 e oggi non è un iperbole retorica ma una chiave interpretativa, bisogna guardare alle strutture profonde che in entrambi i casi reggono il sistema internazionale. Tre in particolare: la configurazione economica, il paradigma tecnologico-produttivo e la traiettoria delle crisi finanziarie.
Sul piano economico, il 1914 arrivava alla fine di una lunga fase di globalizzazione, la cosiddetta Belle Époque. Il commercio mondiale era in piena espansione, la finanza londinese irradiava capitali su scala planetaria, Parigi finanziava opere infrastrutturali dal Mediterraneo alla Russia. L’integrazione sembrava garantire pace e prosperità. Eppure, proprio quell’interdipendenza nascondeva squilibri profondi: gli imperi coloniali di Regno Unito e Francia avevano consolidato i loro domini, mentre Germania e Italia, arrivate tardi, reclamavano la loro parte.
L’imperialismo non era una scelta contingente ma la logica conseguenza del capitalismo concentrato: quando i mercati interni non bastano più, si cerca sbocco all’estero. Oggi lo scenario appare paradossalmente simile. Dopo tre decenni di globalizzazione, catene del valore integrate e liberalizzazione dei capitali, la retorica della “fine della storia” si è infranta. Le economie restano legate da un tessuto fitto di scambi, ma la lotta per l’energia, per i semiconduttori, per le terre rare ha reso quella stessa interdipendenza terreno di vulnerabilità e conflitto.
Il fattore tecnologico è rivelatore
Il secondo fattore è tecnologico, ed è forse il più rivelatore. Nel 1908 Henry Ford lanciò la Model T: un’auto spartana, nera, standardizzata, ma accessibile alla nuova classe media americana. Cinque anni dopo, con l’introduzione della catena di montaggio a Dearborn, la Model T divenne il simbolo di una rivoluzione produttiva: il fordismo. Per la prima volta, la logica della produzione in serie abbassava drasticamente i costi, innalzava la produttività e rendeva l’automobile un bene di massa.
Quella che era stata fino a poco prima un’innovazione di lusso diventava una infrastruttura sociale, destinata a cambiare la mobilità, l’urbanistica, i consumi, persino i rapporti di lavoro. La guerra ne fu un acceleratore: il motore a scoppio, la meccanica, la chimica furono rapidamente convertiti in mitragliatrici, sommergibili, gas tossici. La Model T non fu solo un’auto: fu la chiave di volta che aprì l’ultima fase della seconda rivoluzione industriale, trasformando il mondo in una gigantesca catena di montaggio.
C’è qui un punto decisivo: il fordismo richiedeva masse di lavoro non qualificato. La catena di montaggio spezzava le mansioni, riduceva il gesto operaio a un compito semplice, ripetitivo, alienante, ma indispensabile. La grande impresa industriale assorbì milioni di braccia provenienti dalle campagne e dall’immigrazione, garantì salari più alti per fidelizzare i lavoratori e li trasformò in consumatori del prodotto che fabbricavano. Fu una rivoluzione inclusiva, almeno in apparenza: per funzionare, il nuovo paradigma aveva bisogno di integrare masse di lavoratori dentro la macchina produttiva.
La funzione catalizzatrice dell’intelligenza artificiale
Oggi la stessa funzione catalizzatrice è svolta dall’intelligenza artificiale. Come la Model T, l’IA era inizialmente confinata a laboratori e nicchie specialistiche; poi, in pochi anni, è diventata accessibile a milioni di utenti attraverso interfacce semplici, diffuse come strumenti quotidiani. ChatGPT, Midjourney o Copilot non sono l’equivalente tecnico dell’automobile, ma lo sono in termini simbolici: rappresentano l’ingresso della società intera nell’era dell’automazione cognitiva. Se Ford aveva democratizzato la mobilità, l’IA democratizza, almeno in apparenza, capacità di calcolo, scrittura, analisi, produzione di contenuti. Anche qui, i costi marginali si abbassano vertiginosamente, la produttività cresce, nuovi modelli di business emergono. E anche qui, la proiezione militare è immediata: droni autonomi, cyberwar, decisioni assistite da algoritmi.
Ma la differenza cruciale è sociale. L’IA non ha bisogno di masse di lavoro non qualificato: al contrario, tende a sostituirlo. La sua espansione si fonda su piccole élite di ingegneri, ricercatori, progettisti di chip e piattaforme, mentre intere professioni di medio livello – traduttori, avvocati junior, programmatori di routine – rischiano di essere marginalizzate. Se il fordismo fu inclusivo, perché aveva bisogno di assorbire e disciplinare milioni di lavoratori, la fase dell’IA appare selettiva ed esclusiva: integra pochi altamente qualificati e lascia molti in una posizione residuale. La società di massa nata con la catena di montaggio si trasforma in una società polarizzata dall’algoritmo.
L’apparente solidità del sistema finanziario globale
Infine, la dimensione finanziaria. Nel 1907 una crisi scoppiata a New York – il crollo di un trust minerario e le corse agli sportelli – rivelò la fragilità di un sistema senza banca centrale, basato sulla fiducia e sul capitale privato di pochi magnati come J.P. Morgan. Il panico fu contenuto, ma lasciò dietro di sé la consapevolezza che serviva un prestatore di ultima istanza. Due anni prima di Sarajevo, nel 1913, nasceva la Federal Reserve: una toppa istituzionale su un sistema che sembrava riprendere vigore ma che era già destinato a implodere da lì a non molto tempo nella crisi finanziaria che generò la grande depressione.
Oggi il parallelo è evidente: la crisi del 2008 ha messo a nudo le fragilità della finanza globale, gonfiata da derivati e shadow banking. La risposta – Quantitative Easing, salvataggi, nuove regole – ha stabilizzato i mercati, ma al prezzo di una crescita più debole e di debiti pubblici vertiginosi. Come allora, l’apparente solidità del sistema finanziario globale nasconde squilibri strutturali che rendono il sistema vulnerabile a shock esogeni.
La somiglianza non sta nei dettagli tecnici, ma nella dinamica
In entrambe le epoche, dunque, un intreccio di globalizzazione fragile, rivoluzione tecnologica in fase di maturazione e crisi finanziaria recente ha preparato il terreno al conflitto. Nel 1914 furono le mitragliatrici e i sommergibili; oggi sono i droni e i data center. Allora fu la Model T a simboleggiare l’ultima fase di un ciclo produttivo; oggi è l’IA. La somiglianza non sta nei dettagli tecnici, ma nella dinamica: un sistema che arriva al limite delle proprie possibilità, convinto di essere stabile, ma già attraversato da forze dirompenti che ne minano le fondamenta.
Un’altra somiglianza tra 1914 e oggi riguarda la posizione degli Stati Uniti nel ciclo tecnologico. Allora come oggi, l’America si trovava – e si trova – al centro del paradigma produttivo destinato a diventare egemone. Nel 1914 non era ancora la potenza politica e militare che sarebbe emersa alla fine del conflitto, ma lo era già sul piano economico e industriale. La Model T non era solo un’automobile: era il simbolo di un nuovo modello organizzativo che stava conquistando il mondo. La catena di montaggio fordista condensava ciò che gli Stati Uniti avevano di più innovativo: scala produttiva, standardizzazione, abbattimento dei costi, integrazione fra produzione e consumo. L’Europa era ancora convinta di essere il centro del mondo, ma già allora la spinta propulsiva era altrove, negli spazi sterminati del Midwest, nelle acciaierie di Pittsburgh, nelle raffinerie texane.
Il ruolo della Germania
La Germania, grande rivale del tempo, era a sua volta un laboratorio di innovazioni straordinarie. La chimica, la meccanica di precisione, l’organizzazione militare-industriale le davano un vantaggio competitivo in Europa. Ma mancavano i due pilastri che gli Stati Uniti possedevano in abbondanza: un mercato interno vasto e dinamico e risorse naturali praticamente inesauribili. Per questo il destino della Germania era quello di sentirsi “stretta”: il capitalismo industriale cresceva rapido, ma non aveva sufficiente spazio vitale per consolidarsi. La spinta alla guerra nacque anche da questa frustrazione strutturale.
Oggi la posizione americana ricorda, in parte, quella di allora. Gli Stati Uniti sono ancora al centro della terza rivoluzione industriale, quella digitale, e controllano gran parte delle sue infrastrutture decisive: semiconduttori avanzati, software, piattaforme, cloud. Silicon Valley e dintorni sono, oggi come il Midwest di ieri, i luoghi dove prende forma il paradigma produttivo che dominerà il futuro. L’AI generativa, come la Model T, è stata resa di massa proprio grazie a società americane, capaci di trasformare una tecnologia specialistica in un prodotto accessibile e scalabile.
La rivalità tra Stati Uniti e Cina
Ma la differenza con il 1914 è che questa volta il principale rivale degli Stati Uniti non è una potenza compressa e carente di basi strutturali, bensì la Cina. Ed è una differenza cruciale. La Germania di allora non aveva un grande mercato interno, mentre la Cina ne ha uno immenso, capace di assorbire innovazione e produzione. La Germania dipendeva dall’estero per materie prime strategiche, la Cina dispone di alcune risorse proprie (terre rare) e ha costruito negli ultimi vent’anni una rete di approvvigionamento globale dall’Africa al Sud America. La Germania era geograficamente incastrata in Europa, costretta a fronteggiare potenze vicine su più fronti; la Cina ha invece una proiezione marittima e continentale che le permette di guardare tanto all’Asia centrale quanto al Pacifico.
Gli Stati Uniti, dunque, sono ancora i custodi del cuore tecnologico, ma la partita è meno squilibrata che nel 1914. Allora la superiorità americana era di lungo periodo, quasi inevitabile: la Germania non avrebbe potuto reggere il confronto strutturale. Oggi la Cina ha basi molto più solide e può sfidare l’egemonia tecnologica americana con un mix di capacità innovativa, dimensione del mercato e controllo delle catene di approvvigionamento.
1914-2025: una differenza che “fa la storia”
Se si guarda a lungo termine, il parallelo evidenzia una differenza che “fa la storia”: nel 1914 gli Stati Uniti erano una potenza in ascesa, destinata a surclassare rivali meno dotati; nel 2025 gli Stati Uniti sono ancora al vertice, ma il loro principale concorrente non è un “nano ambizioso” come la Germania, bensì un gigante strutturato come la Cina.
Nel contesto di queste importanti somiglianze strutturali fra le due situazioni un analogo filo rosso lega il 1914 al presente con riguardo ai ruoli giocati dagli attori: la contrapposizione fra potenze sazie e potenze affamate, queste ultime sovvertitrici dell’ordine globale consolidato. Le prime lo difendono, le seconde cercano di ridiscuterlo perché lo vivono come una “camicia troppo stretta”.
Nel 1914 i sazi erano il Regno Unito, la Francia e, in misura diversa, la Russia. Tutti con imperi coloniali consolidati, mercati garantiti e accesso alle risorse. Gli Stati Uniti, ancora parzialmente isolazionisti, erano già di fatto parte di questo fronte. Dall’altro lato, gli affamati: la Germania, potenza industriale in piena ascesa ma priva di colonie proporzionate al suo peso; l’Austria-Ungheria, un impero politicamente logorato ma attraversato da un capitalismo industriale in rapida crescita, seppur diseguale; l’Italia, caso particolare.
Le scelte dell’Italia
Per struttura, anche l’Italia era un paese affamato: giovane industrializzazione, scarse risorse, poche colonie. Eppure, non seguì quella traiettoria: dopo tentennamenti e calcoli di convenienza, decise di schierarsi con l’Intesa, attratta dalle promesse territoriali di Londra e Parigi. Una scelta controintuitiva rispetto alla logica strutturale, che alla fine lasciò, però, un’eredità amara: la vittoria sì, però “mutilata” dallo scarso peso del paese in quell’ordine globale che l’esito del conflitto consolidò. Infine, l’Impero Ottomano, più che affamato di espansione, affamato di sopravvivenza, che si agganciò alla Germania per ritardare la propria disgregazione. Sarajevo fu la scintilla, ma a spingere davvero verso il conflitto furono gli affamati, non i sazi.
La differenza sta nel vento che “gonfia le vele”
Oggi gli schieramenti sono di nuovo riconoscibili, ma una dinamica per quanto riguarda la prospettiva quasi invertita. I sazi sono gli Stati Uniti, l’Europa occidentale, il Giappone: ancora in possesso delle leve fondamentali – finanza, moneta, tecnologia di punta – ma appesantiti da debiti, stagnazione e invecchiamento demografico. I sovvertitori sono la Cina, che ambisce a riscrivere regole e gerarchie. La Russia, che tenta di ridisegnare i confini con la forza. A questi si aggiungono potenze regionali come Iran e Turchia, pronte a sfidare equilibri consolidati, e attori ambigui come l’India e l’Arabia Saudita, che manovrano fra i due campi.
La differenza sta nel vento che “gonfia le vele”. Nel 1914 i sazi erano fiduciosi della propria forza, mentre gli affamati, pur dinamici, erano compressi, privi di risorse adeguate e costretti a rischiare. Oggi accade l’opposto: i sazi si difendono con ansia, mentre i sovvertitori hanno dinamiche di crescita, mercati interni e accesso a risorse che li rendono più solidi dei loro predecessori di un secolo fa. E non solo: tutti gli affamati di oggi sono stati, negli ultimi decenni, tra i principali beneficiari della globalizzazione voluta e gestita dai sazi. Hanno sfruttato l’apertura dei mercati e la liberalizzazione dei capitali per accumulare ricchezza, infrastrutture e capacità tecnologiche. È proprio questa base di potere, costruita dentro l’ordine geopolitico che ora contestano, a renderli meno disperati e più pazienti degli affamati del 1914.
Chi ha le spalle al muro ha più ragioni di aggressività
Seguendo il filo di una logica lineare, quasi geometrica, il punto di partenza è semplice: chi ha meno da guadagnare in prospettiva, e anzi percepisce di avere le spalle al muro, è anche chi ha più motivi per esercitare aggressività. Nel 1914 questa condizione toccava, sebbene dinamicamente emergenti, agli affamati: la Germania, compressa e senza sbocchi, trascinò l’Europa in guerra. Oggi, invece, il quadro si è capovolto.
Gli affamati di oggi, la Cina in primo luogo, ma anche India e altre potenze regionali ormai emerse dalle fila del secondo e terzo mondo hanno ancora dinamiche di crescita, mercati interni in espansione, accesso a risorse globali. Sono stati grandi beneficiari della globalizzazione e hanno accumulato capitale economico e politico dentro la cristallizzazione gerarchica di un ordine mondiale che ora contestano. Per questo non hanno l’urgenza disperata della Germania del 1914: possono attendere, rafforzarsi, crescere gradualmente, anche senza scatenare un conflitto globale.
L’ultima diga contro la follia della guerra su scala mondiale
I sazi, al contrario, sentono il declino. Stagnazione economica, debiti fuori scala, demografia negativa, difficoltà a sostenere conflitti prolungati: l’equilibrio dei fattori di potenza è oggi molto più favorevole agli affamati di quanto non lo fosse un secolo fa. Ed è proprio questa asimmetria a rendere plausibile l’ipotesi che, se mai una “tempesta globale” dovesse deflagrare innescata dalla Sarajevo del caso, essa potrebbe essere generata non dai sovvertitori, ma dai sazi declinanti.
E tuttavia, un freno non trascurabile c’è: oltre al sempre presente deterrente nucleare, le opinioni pubbliche. Se nel 1914 le società europee si lasciarono trascinare, spesso con entusiasmo, nel turbine bellico, oggi le popolazioni dei paesi sazi appaiono profondamente riluttanti. È difficile immaginare giovani italiani, francesi, tedeschi, spagnoli ed anche statunitensi disposti a sacrificarsi per l’“ordine liberale” o per l’American way of life. La memoria storica, il disincanto e l’individualismo diffuso rendono arduo mobilitare milioni di persone per una guerra totale.
Questa reticenza è forse l’ultima, ma non irrilevante, diga contro la follia della guerra su scala mondiale. Se una pace più duratura sarà possibile, dipenderà anche da questa resistenza silenziosa: dalla domanda di dialogo e dalla diffidenza verso le avventure belliche che, per la prima volta nella storia moderna, fanno delle opinioni pubbliche dei sazi un argine sicuramente più solido delle loro stesse élite.
*Le opinioni qui espresse sono di esclusiva responsabilità dell’autore