categoria: Vicolo corto
Gender Gap 2025: cinque generazioni per raggiungere la parità


Post di Giulia De Vendictis –
Qualche anno fa ero a un aperitivo con amici. Non ricordo esattamente il discorso, ma a un certo punto dissi che avrei voluto diventare manager e avere una famiglia. L’architetto seduto di fronte mi fermò subito: «Non è possibile per una donna». Quella frase racconta meglio di mille statistiche che cos’è, ancora oggi, il gender gap.
Qualche mese fa, in taxi verso una conferenza a Cernobbio, chiacchieravo con una giovane collega. A un certo punto il tassista, ascoltando la nostra conversazione, intervenne: «Dovete sbrigarvi a fare figli». Lei rispose di non volere figli e aggiunse che, oggi, fare un figlio è un atto egoista (un pensiero che sento esprimere sempre più spesso). Il tassista, senza malizia, domandò: «E chi si prenderà cura di te in vecchiaia?». E lei, pronta: «Devo fare figli per avere un badante?».
Diversi episodi, stesso sottotesto.
Cos’è il gender gap?
Il gender gap misura il divario tra donne e uomini nell’accesso a risorse e opportunità: partecipazione al mercato del lavoro, retribuzione, accesso a cariche decisionali e politiche, istruzione e salute. Non è una differenza biologica, ma una disparità sociale ed economica che limita le opportunità e i diritti del genere meno rappresentato – attualmente quello femminile.
«Ogni giorno milioni di giovani donne scoprono, a proprie spese, di non poter realizzare i propri sogni. Devono subire discriminazioni, a volte violente discriminazioni. Devono accettare invece di scegliere, devono obbedire invece di avere idee. Solo perché sono donne. Questa situazione non è solo immorale o ingiusta, ma rappresenta anche un atteggiamento miope. Le nostre economie stanno perdendo alcuni dei nostri migliori talenti.»
Mario Draghi (2021)
Global Gender Gap Report 2025
Secondo il Global Gender Gap Report 2025 del World Economic Forum, la piena parità tra uomini e donne non sarà raggiunta prima di 123 anni. Per rendere l’idea: una generazione dura in media 25 anni, ossia il tempo che passa dalla nascita di un genitore a quella di un figlio. Tradotto: ci vorranno circa cinque generazioni prima che il divario di genere possa essere colmato.
L’impatto della pandemia
Nel 2019 servivano “solo” 99,5 anni, ma poi è arrivato il Covid-19. La pandemia ha cancellato in un colpo i progressi faticosamente accumulati, facendo salire la stima a 135,6 anni: una generazione persa. Non è un caso. I settori più colpiti dai lockdown – servizi, commercio, comunicazione – sono quelli a maggiore occupazione femminile. Molte donne hanno rassegnato le dimissioni per reggere il peso della didattica a distanza e della cura domestica.

Il gender gap non è una differenza biologica, ma una disparità sociale ed economica (designed by Freepik)
Dal 2021 al 2023 l’andamento è rimasto stabile (131-136 anni), tra lievi miglioramenti e nuovi peggioramenti. Solo nell’ultimo anno la curva si è abbassata a 123 anni. Un passo avanti, certo, ma il messaggio è chiaro: nessuna economia al mondo ha ancora colmato il divario di genere e ogni crisi globale scarica sulle spalle delle donne il costo più alto.
Le radici del gender gap in Italia
Per capire perché il nostro Paese continui a rimanere indietro, occorre analizzare cinque fattori chiave: la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, le difficoltà di conciliazione tra vita privata e carriera, il persistere di stereotipi culturali, le barriere di accesso alla leadership e i divari territoriali che amplificano le disuguaglianze.
Bassa partecipazione femminile al lavoro
Nel 2024, il tasso medio di occupazione nell’Unione Europea (20-64 anni) era del 75,8%. Tra i Paesi membri variava dall’83,5% dei Paesi Bassi al 67,1% dell’Italia.
Sempre nella stessa fascia, secondo Eurostat (Employment and activity by sex and age, 2024), il tasso medio di occupazione maschile nell’UE era pari all’80,8%, mentre quello femminile al 70,8%, con un divario di 10 punti. In Italia, invece, il tasso medio di occupazione maschile era del 76,8% e quello femminile del 57,4%, con un divario di 19,4 punti.
Le differenze si notano anche nei salari, nelle ore lavorate e nell’accesso a posizioni dirigenziali, con effetti diretti sulla capacità di risparmio e sull’accumulo di contributi pensionistici.
Conciliazione lavoro-famiglia difficile
In Italia le donne restano le principali responsabili della cura della famiglia e della casa. Questo non è dovuto solo a bias socio-culturali, ma anche a una reale carenza di servizi di welfare. Un potenziamento degli asili nido e dei servizi per l’infanzia permetterebbe ai genitori di conciliare meglio vita familiare e lavoro, riducendo il gender gap e il tasso di dimissioni femminili.
Anche il lavoro da remoto è uno strumento importante di conciliazione. Secondo uno studio di Bankitalia (luglio 2025), lo smart working ha avuto un impatto positivo sull’occupazione femminile, creando opportunità soprattutto nel Mezzogiorno e nelle aree meno popolate. Tuttavia, molte aziende stanno facendo passi indietro, richiamando i dipendenti in ufficio e riducendone l’efficacia come leva di inclusione.
Infine, sul fronte dei congedi, l’Italia resta agli ultimi posti tra i Paesi europei: 5 mesi complessivi per il congedo di maternità e soli 10 giorni per quello di paternità, a cui si aggiunge il congedo parentale da dividere tra entrambi i genitori, poco utilizzato a causa di un’indennità ridotta. Altri Paesi hanno adottato soluzioni più inclusive, trasformando i congedi di maternità in congedi gender neutral, per favorire una ripartizione più equa tra i genitori e superare gli stereotipi di genere.
Stereotipi di genere e cultura tradizionale
Gli stereotipi socio-culturali continuano a influenzare le scelte educative e professionali, alimentati dal pregiudizio che certi lavori siano “da uomo” o “da donna”. Allo stesso modo, tradizione e bias attribuiscono alle donne quasi interamente la responsabilità della cura della prole.
Un esempio dal mondo del recruiting: se sono previste trasferte, agli uomini viene chiesto se le ritengono fattibili; alle donne, se riusciranno a conciliarle con marito e figli.
Le discipline umanistiche restano a prevalenza femminile, mentre le materie STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) sono ancora appannaggio maschile. Nel 2023, solo il 16,8% delle donne tra i 25 e i 34 anni ha conseguito una laurea STEM, contro il 37% degli uomini (Rapporto ISTAT “Livelli di istruzione e ritorni occupazionali”, 17 luglio 2024).
Promuovere una maggiore partecipazione femminile alle STEM è essenziale, perché sono i settori più in crescita e con le migliori prospettive occupazionali.
Leadership e politica
Sempre secondo il Global Gender Gap Report 2025, tra il 2015 e il 2024 le donne hanno progressivamente guadagnato posti di leadership: la quota di donne in ruoli di top management è salita dal 25,7% al 28,1%, mentre nel middle management dal 31,5% al 33,4%.

Gli stereotipi socio-culturali continuano a influenzare le scelte educative e professionali, alimentati dal pregiudizio (designed by Freepik)
Le donne incontrano ancora forti difficoltà ad accedere a posizioni decisionali aziendali e istituzionali: è il cosiddetto glass ceiling. A perderci non sono solo le donne, ma l’intera economia: una maggiore eterogeneità ai vertici è correlata a migliori performance, più innovazione e retention dei talenti.
Divari territoriali
Il gap è più marcato nel Sud Italia, dove i tassi di occupazione femminile scendono sotto il 40% (Eurostat – Regional Labour Market 2024), ben al di sotto della media nazionale del 57,4% e lontanissimo dalla media europea del 70,8%.
Intersezionalità e discriminazioni multiple
Come ricordava Michela Murgia, esistono diverse forme di privilegio e discriminazione che possono incontrarsi e sommarsi.
«Se tu fossi una donna nera e io una donna bianca, quale sono, saremmo discriminate sul piano di genere in una società patriarcale, ma io sarei una privilegiata perché sono di pelle più chiara e non potrei mai dimenticare che, quando parlo della discriminazione di genere, c’è una donna di fianco a me che ne subisce due: anche quella razziale. Se, in questo gioco, io fossi quella ricca e lei quella povera, lei ne avrebbe tre di discriminazioni da gestire, e questa è proprio l’intersezionalità.
Se si vuole fare una battaglia comune, io non posso pensare che il piano del genere sia l’unico sul quale devo agire. Nel momento in cui denuncio il mio dislivello di potere rispetto al maschio, devo riconoscere il mio privilegio rispetto a una donna come me, ma non bianca e non ricca […] perché il sistema mi riconosce il privilegio. Possiamo partecipare alla rivoluzione delle comunità oppresse, se riconosciamo di essere parte dell’oppressione.»
Come possiamo cambiare?
Servono azioni concrete. Le istituzioni e i datori di lavoro hanno un ruolo decisivo, ma solo con l’impegno condiviso di tutti sarà possibile colmare i divari – e speriamo di non dover attendere altre cinque generazioni.