Il vicolo cieco dell’Euro-Keynesismo militare

scritto da il 18 Settembre 2025

Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –

Essere attori, sebbene indiretti, in una guerra senza porsi il problema di come possa realisticamente finire è un modo, forse elegante, per non scegliere. L’Unione europea, guidata dalla Commissione e dal bisogno di mantenere un consenso immediato, ha scelto, infatti, la via più facile: una narrazione moralmente limpida e mobilitante, che non sbaglia mai nemici né aggettivi, e una strategia di fatto assente. Consenso immediato significa consenso facile da raggiungere: non serve discutere obiettivi concreti, non serve affrontare divergenze tra Stati membri, non serve assumersi la responsabilità di definire un esito realistico del conflitto. Basta appellarsi a una divisione netta tra bene e male, che rende qualsiasi obiezione sospetta di tradimento e permette di tenere insieme governi e opinioni pubbliche eterogenee.

La Russia è l’aggressore, l’Ucraina la vittima, l’Europa il difensore dei valori democratici: tutto semplice, lineare, comprensibile. Chiarissimo anche il futuro evocato: se non si ferma Putin a Kiev, domani lo si troverà a Riga o a Varsavia, dopodomani magari a Helsinki. Questa chiarezza simbolica – funzionale al consenso interno – convive però con una confusione strutturale sui fini reali, sui mezzi proporzionati e sull’uscita dal conflitto.

La doppia bussola degli Stati Uniti

Il contrasto emerge con forza rispetto agli Stati Uniti, che hanno cambiato linea più volte, ma sempre mantenendo una bussola riconoscibile. Per i Democratici, e in generale per il mainstream liberal, la guerra in Ucraina è stata un’occasione perfetta per riportare in vita la tradizione della democracy promotion: esportare valori democratici, rilanciare la NATO, riaffermare un multilateralismo a guida USA. L’invasione russa è stata letta come la conferma della teleologia occidentale: il ritorno di un nemico definito, ideale per consolidare alleanze e risaldare un fronte comune.

Trump, e con lui la tradizione isolazionista conservatrice, ha rimesso al centro un’altra bussola: minimizzare i costi per gli Stati Uniti. Ciò significa ridurre gli oneri strategici globali, stabilizzare i mercati energetici per evitare inflazione interna, provare a spezzare l’asse Mosca–Pechino (il vero rivale sistemico) e trasferire sugli alleati NATO, soprattutto europei, una quota crescente del peso finanziario della spesa militare. Due linee opposte, ma entrambe con una logica cristallina: la prima punta a restaurare la declinante leadership americana, la seconda a difendere interessi geopolitici interni riducendo i costi.

L’Europa dal conflitto stratificato alla favola morale

L’Europa, invece, ha un racconto ma non una strategia. Dalla cooperazione con Mosca fino a ieri alla demonizzazione totale di oggi. L’aggressione russa è presentata come un atto di incontinenza imperiale, come la prova definitiva di una minaccia esistenziale, e da qui discende l’evocazione costante di scenari inverosimili: carri armati russi a Varsavia, invasioni in Finlandia. Scenari che non hanno basi geopolitiche concrete: in Polonia o Finlandia non esiste un tema russofono che possa fungere da pretesto, mentre nei Baltici, dove minoranze russe ci sono, si tratta di realtà piccole e ormai pienamente integrate nell’UE e nella NATO.

In questo schema, il formalismo giuridico sull’inviolabilità dei confini post-URSS diventa dogma morale. Certo, è un principio sancito dai Protocolli di Alma-Ata del 1991, che fissarono la nascita della Comunità degli Stati Indipendenti sul presupposto del rispetto dei confini interni dell’ex URSS, e ribadito dal Trattato di amicizia russo-ucraino del 1997, che riconosceva l’integrità territoriale di Kiev. È anche un principio rafforzato dall’Atto finale di Helsinki del 1975, che consacrava il rispetto delle frontiere in Europa come pilastro della sicurezza collettiva.

Ma tutto ciò, pur utile a fissare una linea netta, resta un formalismo che ignora le ambiguità reali: territori russofoni, identità miste, provocazioni reciproche, il peso delle politiche occidentali percepite da Mosca come minacce dirette. Così l’Europa semplifica: trasforma un conflitto stratificato in una favola morale, dove l’aggressione è chiara e netta e la risposta militare la sola possibile conseguenza.

In teoria l’Europa non guadagna da una lunga guerra. E invece…

Eppure, a guardare gli interessi materiali, l’Europa non guadagna nulla da una guerra lunga così come nulla ha guadagnato da quando è cominciata. Sul fronte energetico, ha sostituito il gas russo a basso costo con forniture americane più care, compromettendo la competitività delle sue industrie energivore. Sul fronte industriale, paga un prezzo più alto di altri per lo shock dei costi e resta dipendente da tecnologie importate. Sul fronte fiscale, la spesa pubblica è gravata dagli aiuti militari, sottraendo risorse a welfare, sanità e transizione ecologica. Non esiste, in termini strettamente economici, un interesse europeo alla prosecuzione indefinita del conflitto. Eppure, l’Europa insiste.

Difficile trovare un razionale a simili condotte, ma mettendo a fuoco i limiti strutturali del modello economico europeo – dell’Eurozona in particolare – forse ci si arriva. Negli ultimi decenni è stato quasi esclusivamente l’export a trainare la crescita, in un mercantilismo centrato sulla Germania e adottato grazie ai trattati anche dagli altri Paesi dell’Unione.

Questo driver ha funzionato, parzialmente, solo finché la globalizzazione garantiva mercati aperti e domanda esterna, ma oggi la globalizzazione è in crisi: le catene di fornitura si frammentano, il protezionismo cresce, i mercati si regionalizzano. Il mercantilismo tedesco, con la sua ossessione per l’export e la compressione salariale, che non è bastato a sostenere lo sviluppo economico del continente – negli ultimi decenni la crescita cumulata del PIL europeo, Germania inclusa, e dei salari reali è stata una frazione di quella registrata da Stati Uniti e Cina – trova molto probabilmente un suo limite strutturale.

Una scorciatoia verso il deficit: la difesa

In questo scenario, l’Europa avrebbe bisogno disperato di politiche espansive per sostenere la domanda interna, rilanciare l’innovazione e ridurre la dipendenza tecnologica, ma un ordinario keynesismo civile è oggi impraticabile. I trattati europei, la disciplina fiscale e i rapporti debito/PIL ormai critici rendono impossibile una politica espansiva tradizionale senza scontrarsi frontalmente con l’ideologia ordoliberale. Parlare apertamente oggi di deficit per welfare, transizione ecologica o politica industriale significherebbe ammettere che decenni di austerità sono stati un errore: ammissione politicamente impraticabile per classi dirigenti che hanno già un non secondario problema di consenso.

Europa guerra

Ecco allora la scorciatoia: la difesa. La spesa militare è l’unico campo in cui il deficit risulta moralmente accettabile (“difesa dei valori”), giuridicamente consentito (deroghe per la sicurezza nazionale) e politicamente spendibile (non divide, anzi ricompone). In questo senso il riarmo è l’unico keynesismo oggi tollerabile dalle dirigenze politiche europee: un keynesismo regressivo, che stimola la domanda senza redistribuire, finanzia innovazione in settori chiusi e sottrae risorse a priorità civili.

Keynesismo e riarmo come politica industriale

Un keynesismo dietro il quale cova anche un’aspirazione più ambiziosa: usare il riarmo come surrogato di politica industriale. In un continente che proibisce gli aiuti di Stato e l’intervento pubblico nell’economia è costantemente sotto esame, la spesa per la difesa diventa il varco che permette di riversare potenzialmente enormi risorse in settori tecnologici giudicati strategici.

La scommessa implicita è quella di replicare, in piccolo, ciò che negli Stati Uniti ha fatto il complesso militare-industriale con la DARPA, l’agenzia di ricerca avanzata del Pentagono che dagli anni Sessanta finanzia progetti militari di frontiera e da cui sono scaturite innovazioni poi decisive per l’economia civile – da internet al GPS.

Ma i ventisette non sono gli Stati Uniti. Non hanno un apparato coordinato, non hanno un’agenzia come la DARPA, non hanno un’industria integrata della difesa. Al contrario, hanno tanti campanili nazionali, standard divergenti, duplicazioni costose. In questo contesto, i flussi di denaro rischiano di alimentare inefficienze più che innovazioni, di consolidare inerzie più che aprire nuove frontiere tecnologiche. Il rischio poi è anche maggiore: senza capacità autonome, le tappe forzate della crescita delle spese militari che si prefigura, si tradurranno molto probabilmente in acquisti diretti di sistemi statunitensi.

Difesa aerea, munizioni, aerei da combattimento: non è affatto detto che i soldi stanziati vadano a industrie europee. Potrebbero, al contrario, diventare un gigantesco programma di sostegno indiretto all’industria d’oltre Atlantico, esattamente come Washington chiede da anni. Ecco il paradosso: l’Europa sceglie la spesa militare per rendere agibile una politica industriale altrimenti preclusa, ma il risultato rischia di essere duplice. Da un lato sottrarre risorse a settori civili strategici, dall’altro alimentare la dipendenza dall’industria americana. Un keynesismo che non stimola davvero l’innovazione europea, ma consolida il ritardo tecnologico del continente.

La funzione ideologica della guerra

Tutto ciò spiega la funzione ideologica che la guerra svolge oggi per le classi dirigenti europee. Esse sanno che l’armamentario ordoliberale non funziona più, ma non possono ammetterlo senza auto-screditarsi. La guerra offre lo schermo perfetto: consente di aprire i rubinetti fiscali senza confessare un cambio di paradigma, di spostare la colpa da fallimenti interni a minacce esterne, di mantenere intatta la retorica della “disciplina” mentre si derogano tutte le regole. Non è il modello europeo ad avere fallito – dice la narrazione – è Putin che ci costringe a spendere.

In parallelo a questa scommessa economica incerta, l’Europa ha perso una sua funzione politica storica: la vocazione alla mediazione, che attraversava destra e sinistra. A sinistra prese la forma dell’Ostpolitik di Willy Brandt e poi di Helmut Schmidt, che coniugò fermezza atlantica e distensione fino all’Atto finale di Helsinki; continuò con Olof Palme e la sua neutralità attiva svedese, con il laburismo britannico pre-Thatcher e, dopo il Muro, con Gerhard Schröder, convinto che la sicurezza passasse anche dall’integrazione economica con Mosca.

Ma la mediazione non fu solo affare di sinistra. Il gollismo di de Gaulle e dei suoi successori difendeva un’autonomia europea: dall’uscita dal comando integrato NATO al riconoscimento della Cina, fino al “no” di Chirac alla guerra in Iraq. In Italia, la Democrazia Cristiana coltivò canali con l’Est – da Moro ad Andreotti – mentre in Germania anche figure conservatrici come Richard von Weizsäcker alimentarono una cultura di dialogo e riconciliazione.

L’Europa in un vicolo cieco, con molta convinzione

Questa tradizione non era innocenza: era calcolo. Mediare non significava equidistanza morale, ma riduzione del rischio in un continente che non può permettersi guerre calde sul proprio confine; significava mantenere canali quando la logica di blocco li chiudeva, e conservare margini di autonomia quando l’alleato maggiore premeva per l’allineamento. Era, in sostanza, l’idea che l’Europa avesse una voce distinta e un interesse proprio: abbassare il livello dello scontro, costruire regole, legare sicurezza e interdipendenza. Di quella grammatica oggi resta poco o nulla: la retorica ha sostituito la mediazione, l’adesione ha soppiantato l’autonomia. E sfortunatamente non si vedono all’orizzonte vie d’uscita da questo vicolo cieco in cui il continente sembra essersi lanciato con molta convinzione.

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