categoria: Accademia dei pugni
La professione del commercialista tra digitalizzazione ed “effetto diga”


Negli ultimi mesi si è discusso molto di come l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione cambieranno il lavoro degli studi. Purtroppo gran parte del dibattito si limita ad analizzare “dentro gli studi” (organizzazione, competenze, strumenti) ed i soggetti coinvolti non sempre sono del tutto alieni da un certo conflitto di interesse.
Manca una visione ecosistemica e ci si dimentica di analizzare il ruolo che hanno ed avranno alcuni attori: Legislatore, Pubblica Amministrazione, Associazioni di categoria, Software house, imprese ed evoluzione dell’arena competitiva, ecc..
È dal comportamento di questi attori (che in gran parte tendono a tifare per il mantenimento dello status quo) che dipenderà la velocità del cambiamento.
Questo mio articolo vuole provare a fornire una interpretazione differente rispetto alla normale vulgata per sviluppare il confronto ed il dialogo tra soggetti possibilmente scevri da conflitti di interessi. Non pretendo di prevedere il futuro o di offrire soluzioni univoche. Mi interessa solo offrire qualche riflessione per riflettere su uno scenario plausibile ma che non può essere per forza di cose l’unico.
1) Perché l’automazione non decolla davvero
Negli ultimi anni l’Italia ha compiuto passi importanti sul fronte della digitalizzazione: l’introduzione della fatturazione elettronica ne è forse l’esempio più evidente. Tuttavia, la piena automazione dei processi resta ancora un obiettivo lontano. Le ragioni sono riconducibili a tre fattori molto concreti:
– Troppe regole e troppe eccezioni. Ogni deroga normativa si traduce in un’ulteriore complessità dei sistemi e, di conseguenza, in attività manuali di correzione o nuovi e costosi aggiornamenti software che vanificano i benefici dell’automazione.
– Dati ripetuti più volte. Fino a quando non verrà adottato in modo effettivo il principio “once-only” (ovvero fornire i dati una sola volta alla Pubblica Amministrazione), cittadini e imprese saranno costretti a inserire le stesse informazioni in più sedi, con un inutile dispendio di tempo ed energie.
– Una precompilata poco “viva”. Oggi rappresenta un supporto utile soltanto a valle del processo. Se diventasse una piattaforma dinamica, capace di dialogare in tempo reale con i software aziendali, gran parte del lavoro non sarebbe più di imputazione ma di semplice controllo.
Il punto cruciale è che la tecnologia necessaria esiste già. Non si tratta quindi di attendere nuove soluzioni digitali, ma di creare le condizioni perché quelle disponibili possano esprimere appieno il loro potenziale. Per riuscirci occorre un cambio di approccio: ridurre la complessità normativa, eliminare le ridondanze e soprattutto introdurre standard condivisi, che consentano ai diversi sistemi di dialogare fra loro. Solo così sarà possibile liberare davvero il valore della digitalizzazione, trasformandola da promessa incompiuta a fattore concreto di competitività per il Paese.
2) Non è solo la tecnologia a cambiare il nostro lavoro: è la domanda delle imprese
Quando si parla di trasformazione del mondo della consulenza, si tende a porre l’accento sulla tecnologia: automazione, intelligenza artificiale, software gestionali sempre più sofisticati. Ma c’è un elemento forse ancora più decisivo: la domanda delle imprese sta cambiando profondamente. Gli imprenditori non cercano più semplici adempimenti o rendiconti a posteriori: pretendono dati immediati, strumenti decisionali e capacità di lettura strategica.
2.1 Perché la domanda è più “alta”
Le imprese non chiedono solo contabilità: chiedono consulenza che stia dentro il flusso operativo e che supporti decisioni rapide. Alcuni esempi aiutano a capire il cambio di passo:
– Consolidamento settoriale. Crescono fusioni e acquisizioni: le PMI diventano parte di gruppi o intraprendono percorsi di crescita. Questo significa avere conti “pronti al closing”, procedure di integrazione post-acquisizione e KPI mensili ben definiti.
– Filiere più esigenti. I clienti capofiliera e le banche richiedono dati affidabili e tempestivi, anche non finanziari: tempi di consegna, qualità, indicatori di sostenibilità.
– Gestione per decisioni rapide. In mercati che si muovono in settimane, l’imprenditore non può attendere mesi. Vuole pre-chiusure mensili, analisi di cassa settimanali, simulazioni immediate.
Il messaggio è chiaro: non basta più produrre numeri, serve governarli e trasformarli in insight utili all’azione.
2.2 Perché le imprese più grandi internalizzano
Un altro fenomeno in crescita è l’internalizzazione della contabilità e di alcune funzioni prima affidate agli studi professionali. Le motivazioni sono evidenti:
– Prossimità al dato. La contabilità nasce dentro i processi (ordini, logistica, incassi). Avere il team in casa significa poter intervenire “in corsa”, senza aspettare la chiusura del mese.
– Integrazione con i gestionali. I moderni ERP collegano vendite, magazzino, pagamenti e fiscalità: la registrazione è già “pulita” e pronta all’uso.
– Velocità e riservatezza. Avere i dati immediatamente disponibili, soprattutto se sensibili, riduce la dipendenza da scambi di file e migliora la capacità di reazione.
– Costi più prevedibili. Se il flusso è automatizzato, il costo interno è stabile, mentre le parcelle a ore risultano meno giustificabili.
La conseguenza per gli studi professionali
Tutto questo riduce lo spazio per la mera “lavorazione” dei documenti e sposta la richiesta delle imprese su tre fronti principali:
– Governare il flusso: progettare processi, introdurre controlli, garantire qualità dei dati.
– Interpretare i numeri: leggere gli scenari fiscali, gestire la cassa, analizzare la redditività dei prezzi.
– Accelerare le decisioni: fornire report infrannuali, risposte rapide, playbook operativi già pronti all’uso.
Il fattore tempo
In questo nuovo contesto, il tempo diventa la variabile critica. Chi riesce a dare risposte veloci e consistenti – con SLA precisi, calendari di pre-chiusura, alert su scostamenti – viene percepito come partner strategico. Chi arriva dopo, invece, è semplicemente fuori gioco.
3) Software house: perché investono più sul lato impresa che sul lato studio
Le società di software trovano più crescita e margini nelle soluzioni per le imprese (gestionali in cloud, integrazioni bancarie, analytics) che nei prodotti per studi. È logico: più utenti, più funzioni, più ricavi ricorrenti.
Tradotto: la contabilità si “sposta” dentro l’ERP aziendale. Allo studio resteranno eccezioni, controlli e consulenza. Chi basa il modello sull’inserimento dati vedrà i margini erodersi.
4) Tre scenari possibili (e molto concreti)
5) Da dove arriverà davvero l’innovazione (spoiler: probabilmente dagli outsider)
Quando si parla di innovazione nei servizi professionali, si tende a guardare ai fornitori tradizionali: software house, provider di soluzioni gestionali, piattaforme fiscali. Ma se osserviamo cosa accade nei mercati più dinamici, emerge un quadro diverso: le innovazioni più dirompenti potrebbero non arriverare dall’interno del settore, bensì dagli outsider, attori che partono da altri business e stanno entrando con logiche nuove e approcci radicali.
– Fintech e pagamenti. Stanno ridisegnando la relazione tra incassi, riconciliazioni e analisi del rischio cliente. Il dato finanziario diventa immediatamente disponibile e integrato, senza bisogno di elaborazioni manuali.
– Piattaforme gestionali nate cloud. A differenza dei sistemi tradizionali, rilasciano aggiornamenti continui, aprono API e integrano moduli fiscali con cadenza mensile. Non sono “software da installare”, ma ecosistemi in evoluzione costante.
– Operatori ibridi (banche, utility digitali, marketplace). Entrano nei servizi contabili quasi per estensione naturale del loro core business: offrono funzioni di base come servizio accessorio, agganciandole a un ecosistema già consolidato di utenti.
– Start-up verticali. Nascono per risolvere problemi specifici – dalle note spese al magazzino, dai trasporti alla logistica – e, una volta conquistata la fiducia dell’impresa, risalgono gradualmente verso la gestione contabile.
L’impatto per gli studi e per le imprese
Il risultato di questa evoluzione è che il flusso dei dati diventa continuo, digitale e “in app”. Le informazioni non passano più da cicli periodici, ma scorrono in tempo reale all’interno di piattaforme integrate.
Per le imprese, questo significa maggiore immediatezza e controllo; per gli studi professionali, invece, comporta una ridefinizione del ruolo. Chi presidia l’interpretazione e la qualità dei dati rimane centrale. Chi, al contrario, fonda il proprio modello sugli adempimenti ripetitivi, rischia di essere semplicemente scavalcato da questi nuovi player
6) Cosa chiedono (davvero) oggi le imprese: risultati, non corsi
In questa fase le imprese non cercano più “ore d’aula” o lunghe sessioni formative che rischiano di rimanere sulla carta. Quello che vogliono sono risultati concreti e misurabili, capaci di produrre effetti immediati sulla gestione quotidiana. La logica è semplice: prima si mettono a terra processi e strumenti, poi – solo a quel punto – ha senso formare le persone.
Che cosa viene richiesto
Gli imprenditori orientano sempre più la domanda verso soluzioni operative, che possano essere verificate nei numeri:
– Servizi con risultato tangibile: riduzione degli errori, incassi più rapidi, scorte più leggere, tempi di chiusura contabile dimezzati.
– Report periodici: pre-chiusure mensili, cruscotti semplici da leggere, alert automatici sugli scostamenti.
– Playbook “chiavi in mano”: istruzioni pratiche per le prime settimane dopo un’acquisizione, procedure per ripulire le anagrafiche clienti, set minimo di controlli interni da attivare subito.
La formazione: quando serve davvero
La formazione rimane utile, ma non è la priorità iniziale. Ha senso dopo che i processi e gli strumenti sono stati implementati, così da diventare supporto al consolidamento. Farla “prima” rischia di disperdere tempo ed energie: l’imprenditore oggi chiede di vedere subito il cambiamento, non di collezionare slide.
Dalla tariffa oraria al premio sul risultato
Un altro aspetto riguarda i modelli di prezzo. Quando il processo viene automatizzato, la tariffa oraria perde significato. È molto più coerente passare a logiche legate ai risultati:
– Canone per processi gestiti, con soglie di qualità e tempi promessi.
– Success fee legata a obiettivi specifici: giorni di incasso ridotti, tasso di errori sotto una soglia, recupero crediti, ottenimento di incentivi, tempi di chiusura abbreviati.
Questo approccio ha un vantaggio decisivo: allinea l’interesse dello studio e quello dell’impresa, perché entrambi lavorano per ottenere lo stesso risultato misurabile.
7) L’“effetto diga”: perché il cambiamento potrebbe essere improvviso
Per anni il sistema ha retto su un equilibrio implicito: la Pubblica Amministrazione, le associazioni di categoria e i fornitori di software hanno avuto convenienza a non spingere troppo sul cambiamento. Così, il modello tradizionale ha continuato a funzionare, seppure con margini sempre più ridotti per gli studi professionali.
Tuttavia, come spesso accade, l’equilibrio può rompersi all’improvviso. È quello che potremmo chiamare “effetto diga”: finché l’acqua è trattenuta, la pressione cresce, ma quando la diga si apre il flusso diventa rapido e travolgente.
Due eventi in particolare potrebbero agire da detonatori:
1. Una vera semplificazione normativa e il principio “una sola volta” nella PA. Se cittadini e imprese potessero fornire i dati una volta sola, con sistemi realmente interoperabili, molta della tradizionale operatività di raccolta e inserimento verrebbe spazzata via in pochi mesi.
2. L’avvento dei gestionali “tutto incluso” nelle imprese. Piattaforme integrate che collegano vendite, magazzino, incassi, pagamenti e adempimenti fiscali in un unico ambiente. In questo scenario, il dato non “esce” più dall’azienda: resta nella piattaforma, mentre allo studio professionale rimangono solo tre spazi distintivi – controllo, gestione delle eccezioni, capacità di consiglio strategico.
Il punto chiave è che il cambiamento non sarebbe graduale. Non ci sarebbe un lento adattamento, ma un salto repentino: da un modello basato sulla lavorazione ripetitiva a uno in cui sopravvive solo chi presidia valore aggiunto e interpretazione.
8) Che cosa fare adesso (12–18 mesi)
Il futuro della consulenza e della gestione d’impresa non si gioca in un orizzonte lontano: è nei prossimi 12–18 mesi che le aziende dovranno compiere le scelte decisive. Chi si muoverà per tempo riuscirà a trasformare i nuovi strumenti in un vantaggio competitivo, chi resterà fermo rischia invece di trovarsi travolto dal cambiamento.
Il primo passo è ridefinire l’offerta. Non basta più limitarsi a “fare le carte”. Alle imprese serve un supporto su tre fronti: gestione operativa dei processi (dalle fatture alle banche, fino alle pre-chiusure), controllo dei dati per garantirne affidabilità e tracciabilità, e infine consulenza strategica, cioè la capacità di aiutare l’imprenditore a decidere su prezzi, cassa, investimenti e integrazioni post-acquisizione.
Il secondo passaggio è misurare i risultati, non le ore di lavoro. Bastano pochi indicatori ben scelti per capire se la macchina funziona: giorni medi di incasso, tempi di chiusura, scostamenti tra pre-chiusure e bilancio, errori ridotti, sanzioni evitate. Numeri semplici, ma che raccontano molto.
Poi c’è un punto spesso sottovalutato: prima i dati, poi gli strumenti. Non serve investire in software se le anagrafiche non sono pulite, se le fonti non sono chiare, se non ci sono regole minime di controllo. Senza questa base, la tecnologia rende la metà.
Un altro fronte cruciale è la collaborazione con le piattaforme. I gestionali e le app non sono concorrenti da temere, ma partner da integrare. Lo studio o il consulente devono presidiare l’ultimo miglio: trasformare dati grezzi in informazioni utili all’imprenditore, non solo al revisore o all’amministrazione.
Infine, servono pacchetti pronti per le PMI in crescita. Soluzioni pratiche e modulari, pensate per i momenti di svolta: “pronti al closing”, con KPI chiari e documenti essenziali; “primi 100 giorni” post-acquisizione, con processi e scadenze allineati; “pronti per la filiera”, con standard minimi di sostenibilità e qualità già rispettati.
In sintesi, i prossimi 12–18 mesi non sono un periodo di transizione qualunque: sono la finestra in cui si decide chi sarà partner strategico degli imprenditori e chi invece rimarrà schiacciato da un modello che non regge più.
Conclusione
Non è una gara di strumenti: è una scelta di modello. Passare dal “fare adempimenti” al governare dati, processi e rischi per generare risultati visibili e veloci. Se semplifichiamo le regole, l’automazione farà il suo corso. Se impariamo a lavorare con i gestionali delle imprese, non saremo scavalcati ma valorizzati.
Quando l’acqua arriverà, chi avrà costruito argini e canali — dati ordinati, controlli chiari, offerte semplici da capire e success fee legate a risultati — non solo resisterà: prospererà. Gli altri, purtroppo, resteranno a valle dell’“effetto diga”.
Tutto questo è semplice? Decisamente no, anzi. Abbiamo di fronte sfide difficilissime ma interessanti.
La buona notizia è che avremo un po’ di tempo per prepararci e sperimentare (non per star fermi) perché, al di là del mercato che corre, tutti gli attori istituzionali sono impegnati a frenare il cambiamento difendendo il proprio modello di business (Pubblica amministrazione compresa).
Il rischio per la nostra professione viene già oggi da concorrenti esterni al nostro settore tradizionale (ma questo se interesserà ai lettori sarà oggetto di un altro articolo).