categoria: Il denaro non dorme mai
Perché l’Italia è un porto sicuro e non lo sappiamo


Post di Giacomo Picchetto, Managing Partner di Alkemia SGR –
Quando pensiamo a un porto sicuro per gli investimenti – un safe haven – l’Italia non è certo il primo nome che viene in mente. Siamo abituati a guardare altrove: Stati Uniti, Francia, Germania, economie considerate solide, prevedibili, con mercati profondi e liquidità illimitata. Per decenni ci siamo quasi rassegnati all’idea che il nostro Paese fosse più un sorvegliato speciale che una destinazione attrattiva.
Eppure, se oggi ci fermiamo a osservare i dati più recenti, scopriamo che lo scenario è cambiato. Le economie storicamente percepite come più sicure mostrano crepe strutturali sempre più visibili. È il caso degli USA la cui crescita organica, al netto degli stimoli fiscali, è ferma dal 2016. La Federal Reserve ha stimato che nei prossimi cinque anni il rapporto debito/PIL potrebbe arrivare al 136%, superando i livelli del dopoguerra senza poter contare sullo stesso potenziale di crescita. L’inflazione viene usata come strumento per ridurre il debito, ma questo ha indebolito la fiducia sul dollaro e sugli asset americani.
D’altra parte, in Europa si osserva un quadro nell’insieme differente: pur in un contesto complesso, i fondamentali macro mostrano una maggiore tenuta rispetto ad altre aree del mondo. L’Eurozona, dopo aver superato la crisi energetica e la fase acuta dell’inflazione; registra tassi di crescita contenuti, ma positivi; una dinamica dei prezzi in progressivo rientro verso il target della BCE e un mercato del lavoro che, pur con differenze tra Paesi, si mantiene sorprendentemente solido. Le politiche fiscali restano vincolate a regole comuni, che contribuiscono a mantenere un minimo di disciplina complessiva.
In questo contesto l’Italia, spesso citata come l’anello debole della catena, sorprende: il nostro Paese ha imboccato un percorso più disciplinato e più stabile. È un ribaltamento di prospettiva che spiazza molti osservatori e che rende ancora più evidente il paradosso: mentre ci sforziamo di difendere la nostra credibilità, il mercato continua a sottovalutarci, ignorando i progressi compiuti negli ultimi anni.
Non è un caso che negli ultimi mesi le principali agenzie di rating hanno promosso l’Italia: Fitch ha alzato il giudizio a “BBB+”, S&P aveva fatto lo stesso già in primavera. Non è un gesto simbolico, ma il riconoscimento di una disciplina fiscale che ha portato il deficit al 3,4% del PIL nel 2024 e di un percorso di riduzione graduale del debito. La Commissione Europea stima per il 2025 una crescita moderata ma positiva (+0,7%), inflazione sotto controllo (intorno al 2%) e disoccupazione in calo. Non siamo un’economia da boom, ma in un mondo segnato da volatilità e incertezza, la prevedibilità vale oro.
Questa lettura è coerente anche con quanto segnalato da Banca d’Italia nell’Indagine sulle aspettative di inflazione e crescita (II trim. 2025)[1], nella quale ha rilevato come le valutazioni sulle condizioni per investire sono state ritenute meno sfavorevoli e come le imprese abbiano riportato attese di una crescita degli investimenti nel 2025 lievemente più sostenuta rispetto a quanto rilevato nella scorsa primavera. In sintesi, i segnali top-down (agenzie di rating e previsioni UE) e bottom-up (sentiment delle imprese) convergono.
Questa stabilità non nasce dal nulla: è il risultato di anni di aggiustamenti, spesso faticosi, che hanno reso l’Italia meno vulnerabile di quanto si pensi. Per questo, oggi, i fondamentali macro sono più solidi e le istituzioni internazionali lo riconoscono apertamente.
Ed è qui che emerge il nodo centrale: nonostante un contesto in netto miglioramento, le valutazioni degli asset italiani restano tra le più basse d’Europa. I multipli delle nostre aziende quotate continuano a riflettere un rischio Paese che i fondamentali non giustificano più. Ancora più evidente è il paradosso delle mid e small cap: imprese spesso leader globali in nicchie ad alta specializzazione, ma valutate ben al di sotto del loro potenziale. Come se il mercato continuasse a guardare all’Italia di ieri, ignorando quella di oggi.

Sono le Pmi italiane di eccellenza, capaci di innovazione e leadership globale, a rappresentare il vero patrimonio del Paese (immagine da Freepik)
Quando si parla di Italia, non possiamo dimenticare il cuore del nostro tessuto imprenditoriale: le piccole e medie imprese di eccellenza. Sono queste aziende, capaci di innovazione e leadership globale, a rappresentare il vero patrimonio del Paese. Investire in economia reale significa sostenere proprio queste imprese: realtà con asset tangibili, know-how difficilmente replicabile e una resilienza comprovata nei momenti di crisi. Il mercato tende a non valorizzarle a sufficienza, ma sono loro la spina dorsale della crescita e della competitività italiana.
A conferma di questa traiettoria, le stime ISTAT indicano che gli investimenti fissi lordi sono attesi in aumento del +1,2% nel 2025 (da +0,5% nel 2024) e del +1,7% nel 2026[2], anche per l’effetto finale del PNRR. Si tratta di una dinamica importante perché mostra come, oltre alle aspettative positive sul quadro macro, ci sia già un impegno crescente in capitale produttivo: macchinari, impianti, infrastrutture che sono il terreno su cui le PMI costruiscono competitività e innovazione. In altri termini, non è solo retorica sul “Made in Italy”: è un trend supportato da numeri concreti che segnalano una fase di rafforzamento strutturale dell’economia reale.
Questa distanza tra percezione e realtà è ciò che rende l’Italia un’opportunità unica. Da un lato, la stabilità macroeconomica e il sostegno degli investimenti pubblici – grazie al PNRR e alle risorse europee – offrono uno scenario solido e prevedibile. Dall’altro, la sottovalutazione cronica dei nostri asset crea margini di rendimento superiori rispetto ad altri mercati sviluppati. In altre parole: siamo un safe haven che remunera di più.
Il punto è che spesso non lo sappiamo neppure noi. Continuiamo a descriverci come fragili, quando invece i dati mostrano che, pur con i nostri limiti strutturali – alto debito, demografia sfavorevole, bassa produttività in alcuni settori – siamo riusciti a guadagnare credibilità, ridurre la vulnerabilità e costruire condizioni di stabilità.Il capitale internazionale forse ne sta prendendo atto, non con la velocità che meriterebbe ma i segnali ormai sono concreti. I round guidati da investitori esteri aumentano, le startup italiane raccolgono fondi anche fuori dai confini nazionali e progetti strategici di Foreign Direct Investment di larga scala stanno entrando nel vivo.
Non è un’illusione ottimistica, ma una dinamica che, se sostenuta da misure regolatorie più trasparenti e incentivi reali, può trasformarsi in una leva stabile di crescita per l’Italia. Quindi, per chi investe nell’economia reale italiana, l’attuale combinazione di solidità e basse valutazioni rappresenta una finestra storica di opportunità. Non serve sperare in un nuovo “miracolo italiano”: basta guardare con occhi diversi il Paese che già abbiamo davanti.
NOTE
[1] Banca D’Italia – Indagine sulle aspettative di inflazione e crescita – 2° trimestre 2025
[2] ISTAT, Le prospettive per l’economia italiana nel 2025 – 2026