Sex and the money: Narciso e la spesa senza debito

scritto da il 12 Ottobre 2025

Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –

Nell’ormai lontano 1974 Jean-François Lyotard, in Économie libidinale, mette al centro un’intuizione radicale: il desiderio non è mancanza, ma forza produttiva. Per descrivere il campo in cui questa forza si muove, elabora il dispositivo della banda libidinale: una dimensione psichica attraversata da flussi di intensità, nella quale si imprimono e si attivano immagini, suoni, oggetti, corpi, segni, simboli, situazioni. La banda non è un semplice contenitore passivo, ma il motore stesso del desiderio: la superficie vitale che produce movimento, differenza e intensità proprio attraverso il suo incessante piegarsi e iscriversi.

Per rendere visibile questo paradosso, Lyotard ricorre alla metafora topologica del nastro di Möbius. Una semplice striscia finita, sottoposta a una torsione elementare, si trasforma in una superficie continua che ha un solo lato e un solo bordo. Non esiste un dentro e un fuori, un sopra e un sotto: ciò che sembra separato si rivela come un’unica faccia. È per questo che il Möbius può essere pensato come una strada che si può percorrere senza mai incontrarne il termine. Non è infinito in senso matematico, ma fa del finito un’esperienza di infinito.

Il primo a usare il Möbius in chiave psicoanalitica non fu Lyotard, ma Jacques Lacan nei suoi Seminari degli anni Sessanta. Qui il nastro rappresenta la struttura del soggetto: conscio e inconscio non come spazi separati, ma come una sola superficie che si rovescia su sé stessa. L’Io, in questa logica, non è mai padrone di sé: è attraversato, instabile, segnato dalla mancanza. Lyotard riprende quella stessa figura e la rovescia. Dove Lacan vede divisione e assenza, lui vede invece una vitalità autosufficiente, un desiderio che non ha bisogno di un Altro per muoversi. Il Möbius, così reinterpretato, non testimonia la ferita della mancanza ma l’eccedenza del desiderio, la sua potenza produttiva.

Un’antecedente intuizione affine, formulata in un registro radicalmente diverso, si trova in Eliogabalo o l’anarchico incoronato di Antonin Artaud. Qui l’imperatore romano diventa la figura mitica di una sovranità che non riconosce confini: maschile e femminile, sacro e profano, potere e piacere vengono piegati e mescolati fino a confondersi.

Eliogabalo non istituisce un nuovo ordine, ma compie un gesto di torsione radicale che rovescia dall’interno le distinzioni su cui si regge quello romano. Il suo corpo è superficie anarchica: non conosce identità stabili, non si lascia definire da ruoli fissati una volta per tutte. Proprio come il Möbius, il corpo di Eliogabalo è superficie senza dentro né fuori, che si fa infinita grazie alla sua piega originaria. Se Lyotard descrive la banda libidinale come dispositivo teorico, Artaud la drammatizza in forma mitica e carnale: Eliogabalo è il Möbius incarnato, vitalità che si genera piegandosi su sé stessa e che trova nella torsione la sua forza produttiva.

Qual è il senso concreto di questa torsione? Non è il frutto di una causa esterna, ma una dinamica psichica interna al vivente. È il movimento con cui la vita, invece di restare aderente a sé stessa, si piega, si curva e facendolo si guarda e qui trova la scintilla che trasforma l’autosufficienza in eccedenza, la continuità in metamorfosi, la persistenza in generatività. Seguendo questa pista interpretativa la connessione con il mito di Narciso, al quale peraltro la psicanalisi sempre rimanda, appare immediata.

Narciso, giovane bellissimo, che aveva respinto l’amore di molti e soprattutto quello della ninfa Eco, è punito da Nemesi. Assetato, si china su una fonte e si innamora perdutamente della propria immagine riflessa, senza riconoscere che si tratta di sé stesso. Incapace di possedere la sua immagine, si consuma fino a morire e al suo posto nasce un fiore, il narciso. Un mito che nella prospettiva qui declinata acquista, però, un significato del tutto diverso da quello corrente. Tradizionalmente è stato letto come parabola della vanità e dell’amore sterile per sé, ma se lo osserviamo nella logica della torsione, la sua figura cambia segno.

Narciso diventa simbolo di una vitalità che si piega su sé stessa e in quella piega genera metamorfosi. L’immagine riflessa non è inganno, ma superficie che moltiplica il desiderio, che non si chiude in sé ma continua a produrre forme. La sua colpa, agli occhi degli dèi, non è la crudeltà ma l’autosufficienza: rifiutando Eco, una voce che peraltro vive solo di ripetizione e risonanza, Narciso rifiuta l’ordine che impone a ogni essere di legarsi a un Altro.

L’autonomia diventa hybris, da punire perché infrange la legge della dipendenza. Ma ciò che il mito condanna come colpa è, in realtà, potenza generativa: dal suo corpo nasce un fiore, segno che il desiderio, piegandosi su sé stesso, non si spegne ma si trasforma. Così come gli dèi puniscono l’autosufficienza di Narciso, anche l’economia ha cercato di reprimere l’idea che la moneta possa nascere dal nulla, come flusso vitale e autosufficiente.

Moneta

Narciso e il riflesso del desiderio (immagine generata da AI)

Nel testo di Lyotard, a questo punto, compare la figura del Grande Zero: la metafora del saldo, dell’equilibrio che ogni società istituisce per rendere commensurabili le tensioni disgregative delle molteplici intensità desideranti e confliggenti dei singoli. La moneta come unità di conto, la Legge come norma, Dio come garanzia dell’essere, il grande Altro come fondamento simbolico: tutti sono forme del medesimo principio ordinativo che promette coerenza e pacificazione. Lyotard ne denuncia la finzione moralistica, ma finisce per restarne prigioniero, perché ogni volta che descrive il desiderio nella sua concreta dinamica, il Grande Zero riemerge come fantasma regolativo.

In merito all’economia Lyotard parte da Marx che aveva distinto due cicli per descriverne il funzionamento: nel primo, M–D–M, il denaro media uno scambio chiuso nell’uso; nel secondo, D–M–D′, essenza del capitalismo, il denaro genera più denaro. Il salto da D a D′ nasce dal plus-valore: la forza-lavoro produce più valore di quanto costa. Lyotard non nega questo schema, ma ne sposta il baricentro. Il motore non è più il lavoro, ma lo scarto tra desiderio e reddito, la spirale di debito e godimento differito che alimenta il sistema.

Il credito non è solo strumento tecnico, ma dispositivo libidinale: consente di consumare oggi ciò che non si può ancora pagare, rinviando la soddisfazione — intesa come la piena proprietà di ciò che si brama e si compra — e proiettando, così, nel futuro la promessa del piacere. Da qui nasce una catena senza fine: più desiderio, più consumo, più debito; più debito, più produzione, più nuovo desiderio.

Questo dispositivo è il coitus interruptus elevato a principio strutturale del capitalismo. Il denaro, in questa logica, non è neutro: è lo Zero — il saldo — del bisogno, il segno che chiude e riapre. La moneta di pagamento chiude il ciclo, estingue il debito, sterilizza il desiderio; la moneta di credito lo prolunga, aggiunge uno Zero, spinge avanti il flusso. Un ciclo che mantiene il sistema in tensione, garantendo che nulla si concluda mai del tutto. In sintesi, solo il desiderio mai soddisfatto può garantire la macchina dell’accumulazione, intesa come la riproduzione infinita del sistema.

È il meccanismo che nel cinema di Elio Petri trova una rappresentazione paradigmatica: La classe operaia va in paradiso mostra l’operaio Lulù Massa, corpo sfruttato in fabbrica e nello stesso tempo catturato dalla spirale dei consumi, con la compagna che sogna la pelliccia. Il desiderio operaio non si esprime più come forza di liberazione, ma come domanda di merci: libido catturata, tradotta in segni, trasformata in credito che è un debito.

Negli stessi anni, Jean Baudrillard porta la diagnosi in un’altra direzione. In continuità con La società dello spettacolo di Guy Debord e con le intuizioni mediologiche di Marshall McLuhan, condivide con Lyotard l’idea che al cuore dell’economia non vi sia soltanto il lavoro, ma il desiderio e la circolazione dei segni. Tuttavia, mentre Lyotard parla di intensità libidinali, Baudrillard sposta l’attenzione sul segno: il capitale non è più accumulazione di valore, ma proliferazione di simulacri che si scambiano in un circuito autoreferenziale. Le merci, i corpi e i desideri vengono catturati come segni e resi disponibili a una circolazione infinita.

Per rompere questa cattura, Baudrillard evoca la possibilità di uno scambio simbolico, fondato sul dono e sulla perdita: un’economia in cui il valore non si misura più sul profitto, ma sull’atto di dare senza ricevere, di restituire distruggendo. È la logica, per esempio, del dono cerimoniale o del sacrificio — ciò che, spendendo senza calcolo, restituisce senso alla relazione. Ma in Baudrillard questa proiezione resta solo un’eco utopica, un’ipotesi peraltro che il sistema stesso rende impossibile. In un mondo dove tutto può essere rappresentato, anche la perdita si trasforma in occasione di profitto: la distruzione diventa spettacolo, la protesta consumo, la trasgressione moda. Il sistema assorbe la propria negazione, la rivende come segno di libertà, ne fa un altro oggetto di scambio.

Qui, l’impossibilità del Grande Zero — l’inconcepibilità stessa di un fondamento — genera un sistema dell’irrealtà che ne testimonia, paradossalmente, la necessità. Baudrillard non resta prigioniero dello Zero nella rappresentazione del sistema economico come Lyotard, ma ne mostra il destino: la sua dissoluzione in un vuoto operativo che continua a reggere il mondo dei segni. L’economia simbolica non oltrepassa il codice dal momento che ne è diventato essenza e forma del suo funzionamento.

Alla fine, entrambi restano prigionieri di ciò che cercano di superare. Lyotard non riesce a sciogliersi dal Grande Zero: il suo stesso dispositivo libidinale continua a presupporre una funzione regolativa che trattiene il godimento e ne differisce il soddisfacimento. Baudrillard, nel denunciare la cattura dei segni, rischia invece di proporre un altro codice, quello della reversibilità assoluta: un principio secondo cui ogni perdita trova un equivalente, ogni distruzione un ritorno, ogni gesto un contrappeso. È la pretesa che tutto possa scambiarsi, che nulla vada davvero perduto, e che persino la rottura debba trovare una forma di compensazione. Ma proprio così la sua critica finisce per chiudersi nel medesimo linguaggio che voleva disfare.

In entrambi i casi ritorna lo spettro che attraversa gran parte della filosofia occidentale, da Platone a Hegel: l’idea che debba esistere un principio ordinativo ultimo, capace di tenere insieme il vero, il buono e il bello in un equilibrio razionale. Il Grande Zero è omologo all’Idea del Bene, allo Spirito, è il saldo che permette di salvare l’ordine o, al limite, un fantasma che torna sotto altre forme se negato.

È qui che si apre uno scarto. Perché accettare come naturale l’impossibilità del piacere? Perché riconoscere al Grande Zero una funzione ontologica che riduce il desiderio a mancanza e il godimento a rinvio? Non è questa, in fondo, la vera vittoria del dispositivo: trasformare la vita in equilibrio sospeso, convertire l’eccedenza in mancanza infinita?

La moneta con il suo immanente funzionamento ci mostra che potrebbe non essere così. Soprattutto nella sua forma moderna di creazione ex nihilo, la moneta appare come un atto di desiderio puro, non come un simbolo di equivalenze pregresse o a venire. Alla fine, per usare la linea argomentativa di Économie libidinale, ogni emissione monetaria è un’eccedenza erotica: non garantita da nulla, affidata soltanto alla fiducia che la sua circolazione avrà senso.

La moneta non rappresenta, ma produce; non misura, ma genera; non rinvia, ma lancia nel mondo il proprio flusso e se il capitale ha saputo catturare questa energia nella logica del rinvio infinito, la sua restituzione al movimento originario – alla possibilità della soddisfazione del piacere – non è un’ipotesi inattuale. Perché la negazione del coitus interruptus, l’orgasmo, in senso economico, non è altra cosa che la spesa senza debito: l’atto in cui il desiderio si realizza pienamente senza aprire obbligazioni future, senza catene da onorare.

La spesa non è la morte della moneta, ma la sua metamorfosi. Non la cancellazione del desiderio, ma la sua rigenerazione. Ogni volta che il denaro si traduce in atto d’acquisto, non si esaurisce: cambia forma, rilancia, apre nuove intensità. In questo senso, la moneta è il luogo in cui il desiderio si mostra nella sua natura più radicale: non mancanza da colmare, ma flusso vitale che trova nella trasformazione il suo compimento. È questo che Lyotard ha intravisto ma non ha saputo afferrare: che il circuito economico non si regge sul rinvio, ma sull’immediato soddisfacimento del piacere che non è dissipazione né annullamento, ma compimento pieno, possibile solo nella spesa senza debito e condizione di possibilità di una vita non alienata.

La dicotomia fra economia reale e monetaria funziona esattamente come la dicotomia fra io e Altro. Entrambe promettono un fondamento, una garanzia: da un lato i beni, la produzione, il lavoro come “realtà solida” rispetto ai segni evanescenti della finanza; dall’altro l’Altro — Dio, la Legge, il grande Altro lacaniano — come istanza che conferisce senso a un io altrimenti mancante. Ma si tratta di illusioni simmetriche: finzioni morali costruite per contenere l’eccedenza del desiderio.

Se guardiamo la cosa dalla prospettiva della torsione, il quadro si rovescia. Non c’è economia reale che precede la moneta: è il segno monetario, nato dal nulla, che rende possibile e attiva la produzione. Non c’è io mancante che attende l’Altro: è il desiderio, piegato su sé stesso, che genera forme, intensità, metamorfosi.  Lo stigma ordinario che grava su Narciso è lo stesso che connota la moneta “autoreferenziale”: che ciò che non si orienta all’Altro, ad altro da sé, sarebbe sterile o distruttivo, inutile o inflattivo. Ma se leggiamo Narciso come torsione generativa — dal suo desiderio nasce un fiore — allora anche la moneta non è illusione: è energia erotica che attraversa corpi e istituzioni, eccedenza che non ha bisogno di garanzie esterne per produrre valore.

È in questa prospettiva che la moneta appare per ciò che è: non un simulacro privo di realtà, ma la forma forse più limpida in cui si manifesta il flusso del desiderio. Creata dal nulla, essa non attende alcun fondamento esterno — oro, beni, lavoro — per giustificarsi: scorre come energia autosufficiente, la cui unica legge è il suo stesso movimento. La moneta non rappresenta: produce. È libido che prende forma numerica, cifra che porta con sé il peso e la leggerezza di un desiderio che non si lascia fermare. E il suo fine non è l’accumulo infinito, che è soltanto la maschera che sovrastrutture ordinatrici le impongono, in nome dell’equilibrio, della durata, del futuro.

La moneta trova senso solo nella spesa, nell’istante in cui passa di mano e diventa corpo, esperienza, metamorfosi, ma se la moneta è desiderio, allora l’inflazione non è eccesso febbrile, non è infiammazione. È, al contrario, la svalutazione del desiderio che non trova soddisfazione, che moltiplica segni senza orgasmo. In questa prospettiva non è il capitalismo ad essere il paradigma del coitus interruptus, bensì l’inflazione a trovare in esso la propria causa: desiderio bloccato prima di ogni altra cosa da vincoli psichici, da passioni tristi, che limitano la capacità dell’offerta di adeguarsi alla domanda. In ogni caso l’esito di un circuito fantasmatico: molta moneta, molto desiderio e pochi beni da comprare.

L’inflazione non rivela una scissione tra economia reale e finanziaria, ma il loro blocco comune. È l’effetto di un desiderio che, trattenuto dalla paura, accumula segni invece di trasformarli in mondo. Non è eccesso di domanda, ma difetto di metamorfosi: un’energia che, invece di generare capacità produttiva, si chiude nella tesaurizzazione.

La moneta, dunque, è flusso di desiderio destinato al soddisfacimento del piacere. Le distinzioni che la morale e l’economia pretendono di fissare — sessualità riproduttiva contro sterile, economia reale contro finanziaria — sono soltanto le maschere con cui il Grande Zero cerca di imbrigliare il movimento. In verità, non esiste desiderio sterile e l’inflazione non è la febbre di un corpo infiammato, ma la malattia di un desiderio bloccato e quindi rinviato e svalutato; il frutto dell’ordine morale della paura, che teme il godimento e lo trasforma in accumulo di segni fine a sé stesso in una logica di riproduzione di un ordine senza vie di fuga.

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