Chi farà la banca d’affari in Italia?

scritto da il 24 Ottobre 2025

Post di Simone Strocchi, Presidente e Managing Partner di Electa Ventures – 

In questi mesi ho provato a sostenere e promuovere un’interpretazione diversa di ciò che stava accadendo intorno a MPS e Mediobanca e torno sulla visione che continuo a ritenere la più utile per il sistema: leggere MPS non come una banca predatrice, ma come una sorta di “SPAC di sistema”. L’idea era di promuovere una business combination con fusione inversa tra MPS e Mediobanca per rilanciare una nuova Mediobanca, fedele allo spirito originario delineato da Enrico Cuccia alla sua costituzione: una banca d’affari italiana al servizio delle imprese italiane, per svilupparle con capitale e governance italiani. Un’operazione che avrebbe potuto rappresentare una vera svolta industriale e culturale, non un semplice incastro finanziario.

Al momento tutto ciò non appare (ancora?) essere nei piani industriali della nuova entità combinata che sta sempre più plasmando la propria identità verso il wealth-management, in un contesto dove sembra scomparire il lessico della banca d’affari. Ora che il 30% di Generali è stato consolidato, la banca appare determinata ad integrare ed aumentare le fila dei private banker incrementando la raccolta, con utili netti prospettici sostenuti da benefici fiscali resi disponibili dalle DTA a vantaggio degli azionisti.

Ma la domanda resta: se anche Mediobanca si concentrasse sempre di più sul wealth-management, chi farà la banca d’affari in Italia? Chi accompagnerà le imprese italiane nei processi di crescita, patrimonializzazione e sviluppo internazionale, in un Paese che ogni settimana perde un pezzo del proprio tessuto industriale – tra acquisizioni straniere, passaggi di controllo di imprese nazionali da fondi italiani a fondi e trade buyer esteri – e osserva un flusso continuo di delisting che coincide troppo spesso con il trasferimento della governance fuori dai confini nazionali?

Il logo di Mediobanca REUTERS/Flavio Lo Scalzo/File Photo

Il sistema italiano continua a perseverare in un estrattivismo finanziario: si guarda al breve periodo, si inseguono volumi, commissioni e margini d’intermediazione, a discapito della creazione di valore industriale duraturo nel “consolidato Italia”. È un paradosso che diventa autolesionismo: la finanza italiana alimenta così la deindustrializzazione che la priverà della propria materia prima economica.

La risposta non può essere la nostalgia, ma la costruzione di un’alternativa: una finanza abilitante, capace di mettere in relazione il risparmio privato con la crescita industriale e di supplire eventualmente anche alla assenza di una banca d’affari nazionale. Abbiamo risparmio consistente, abbiamo imprese eccellenti. Ma serve una reazione sistemica. Serve che il Paese – e il suo sistema finanziario- ritrovi la consapevolezza che non basta intermediare valore: bisogna contribuire a generarlo, e farlo restare qui.

Electa e Azimut hanno, ad esempio, da tempo tracciato questa rotta, facendo evolvere un gruppo di wealth-management indipendente in un investitore stabile e innovativo nell’economia reale, dentro e fuori dai mercati borsistici, attento a supportare la formazione di campioni di impresa nazionali in continuità di governance e sensibilità italiane. Serve coraggio, visione e impegno per ridare all’Italia una finanza che non estragga, ma costruisca. Dobbiamo trovare il modo di concretizzare nuovi approcci e strategie – come abbiamo fatto fino ad oggi, con successi ripetuti – studiando nuove formule per scambiare volume con valore, con l’intento di supportare lo sviluppo di una selezione sempre più ampia di imprese italiane eccellenti.

Qualcuno deve dare l’esempio e risalire la corrente, mentre le banche ripiegano sul wealth management e i professionisti di M&A, cosi come il corporate investment banking dei principali istituti di credito nazionali, sembrano interessati a mantenersi ripartendosi  “one off” fee  nell’ambito del transaction cost che corrispondono complessivamente al 3-4% del valore delle società vendute o su interessi calcolati a punti percentuali su linee di acquisition financing, in un flusso inarrestabile di cessione allo straniero che coinvolge un numero crescente delle nostre più belle realtà industriali.

Dobbiamo tornare a pensare a preservare e a espandere il valore sottostante, sostenendo la capacità continuativa di generare reddito del nostro tessuto industriale. Solo così l’Italia potrà avere di nuovo una finanza degna della propria economia reale.