Israele, o della lunga distanza tra cittadinanza e democrazia

scritto da il 12 Maggio 2025

Post di Gianpaolo Lafargue, pseudonimo di un manager operante nel settore finanziario –

Quando si discute del carattere democratico di Israele, la difesa più frequente avanzata dai suoi sostenitori – soprattutto in Europa e Nord America – è una formula un po’ consunta: Israele sarebbe “l’unica piena liberal-democrazia del Medio Oriente”, una cittadella assediata della modernità in una regione di autocrazie e fondamentalismi. Un bastione civile, imperfetto forse, ma pur sempre irrinunciabile per chi ha a cuore i valori dell’Occidente.

Eppure, basta uno sguardo appena meno devoto per accorgersi che questa rappresentazione, tanto comoda quanto indulgente, non regge nemmeno al primo esame serio. Non serve nemmeno avventurarsi nei territori occupati dopo il 1967, che pure offrirebbero materia abbondante per contestare l’immagine. Basta restare dentro Israele, dentro i suoi confini consolidati, e osservare con calma come è costruita e vissuta la cittadinanza.

Israele non è una teocrazia. Non è governato da un clero, né fonda le sue leggi sulla halakhah come l’Iran sulla sharia. Non è nemmeno una dittatura. È una democrazia elettorale, con partiti politici, alternanze di governo, stampa relativamente indipendente, opinione pubblica viva. Ma non è una piena liberal-democrazia. La radice della questione è semplice e profonda: Israele è uno Stato confessionale, nel quale l’appartenenza etnico-religiosa ebraica non è solo un fatto culturale, ma il fondamento stesso del progetto nazionale.

Questo è stato sancito in modo cristallino con la Legge Fondamentale del 2018, che proclama Israele “Stato-nazione del popolo ebraico”, e stabilisce che solo gli ebrei sono titolari del diritto all’autodeterminazione nazionale. Gli altri cittadini – arabi, drusi, circassi – pur muniti di passaporto e diritto di voto, non sono parte costituente della nazione. Sono, in un certo senso, cittadini ammessi, tollerati, ma non equivalenti.

Questa architettura di fondo si traduce concretamente in tre grandi assi di discriminazione, ciascuno con una genealogia storica ben precisa.

Il primo asse riguarda l’educazione. Sin dalla nascita dello Stato, il sistema scolastico israeliano è stato costruito come un mosaico di reti separate: scuole ebraiche laiche, scuole ebraiche religiose, scuole arabe, scuole ultraortodosse. Ogni rete ha curricula, lingua di insegnamento, riferimenti culturali propri. Non si tratta di un pluralismo virtuoso, ma di una segmentazione sistemica.

In particolare, le scuole arabe sono finanziate in modo inferiore, hanno accesso più limitato a infrastrutture moderne, programmi avanzati, percorsi di eccellenza. Nessuna legge impone apertamente questa differenza; è l’inerzia della costruzione istituzionale a perpetuarla. Così la cittadinanza differenziale si radica fin dall’infanzia, rendendo di fatto impossibile la costruzione di uno spazio civico condiviso.

Il secondo asse riguarda la terra e lo sviluppo territoriale. La trasformazione del regime fondiario israeliano è avvenuta in modo drammatico dopo la guerra del 1948. Prima, il sionismo si affidava all’acquisto progressivo di terre attraverso agenzie come il Jewish National Fund. Dopo il 1948, la Nakba e la fuga o espulsione di circa 700.000 palestinesi consentirono una gigantesca appropriazione di proprietà, legalizzata attraverso la Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950. Oggi il 93% della terra israeliana è di proprietà statale o di enti pubblici. Ma questa proprietà “statale” è tutt’altro che neutrale: la terra è gestita da enti come l’Israel Land Authority o il Jewish National Fund che operano esplicitamente nell’interesse del popolo ebraico.

Questo sistema consente allo Stato di decidere dove si può costruire e dove no, dove si aprono nuovi quartieri, dove si investe in infrastrutture, dove si crea occupazione. Le comunità arabe, sistematicamente, vengono escluse o marginalizzate: interi villaggi arabi non sono inclusi nei piani regolatori, e vengono considerati “non riconosciuti”, privati dell’accesso a elettricità, acqua, strade asfaltate.

Gli insediamenti ebraici, al contrario, beneficiano di piani urbanistici avanzati, incentivi pubblici, investimenti infrastrutturali superiori. Così, mentre la cittadinanza araba è formalmente protetta, lo sviluppo materiale delle comunità segue una logica selettiva e discriminante, fondata sulla disponibilità controllata della risorsa più strategica: il territorio.

Il terzo asse riguarda l’accesso al settore pubblico e alle carriere strategiche. In Israele, il servizio militare è obbligatorio per tutti gli ebrei e per alcune minoranze druse e circasse, ma non per la popolazione araba, che di fatto ne è esclusa. Il servizio militare non è solo un dovere civico: è il passaggio quasi obbligato per accedere alle carriere migliori nella pubblica amministrazione, nelle imprese statali, nella sicurezza, nella tecnologia avanzata. Anche quando il servizio non è formalmente richiesto nei bandi di concorso, l’esperienza militare pesa nella selezione: per reti di conoscenze, per status sociale, per requisiti impliciti di “affidabilità” e “patriottismo”. In pratica, l’esclusione dal servizio militare determina l’esclusione sistematica di buona parte della cittadinanza araba dai circuiti di potere economico e amministrativo.

Anche qui non serve una legge apertamente discriminatoria: basta il funzionamento ordinario delle istituzioni.

Il risultato complessivo è un quadro che non può essere descritto onestamente come quello di una piena liberal-democrazia. Israele è una democrazia elettorale, senza dubbio. Ma è anche una democrazia etnica, in cui l’appartenenza alla maggioranza definisce in misura cruciale l’accesso alle risorse, ai diritti effettivi, alle opportunità di vita.

Un manifestante tiene un cartello durante una manifestazione a Bruxelles l’11 maggio 2025, organizzata da una coalizione di circa 60 organizzazioni della società civile per chiedere il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La guerra a Gaza è scoppiata dopo l’attacco dei militanti palestinesi di Hamas contro Israele dell’ottobre 2023, che ha causato la morte di 1.218 persone, per lo più civili, secondo un conteggio dell’AFP basato su dati ufficiali. Il 10 maggio 2025, il ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato che almeno 2.701 persone sono state uccise da quando Israele ha ripreso la sua campagna a Gaza, portando il bilancio complessivo delle vittime dallo scoppio della guerra a 52.810. (Foto di HATIM KAGHAT / Belga / AFP) 

Il conflitto israelo-palestinese, incancrenito da decenni, probabilmente continuerà a incancrenirsi ancora a lungo. Non vi è nessuna pace imminente all’orizzonte, nessuna soluzione magica pronta a sciogliere rigidità che si sono sedimentate per generazioni. Se mai una speranza potrà maturare, essa non nascerà dai grandi summit internazionali né dai comunicati delle diplomazie, ma da un cambiamento più paziente e più radicale: Israele dovrebbe iniziare a casa propria, rimuovendo le discriminazioni interne che ne minano la credibilità democratica.

E qui entrano in gioco anche gli amici liberal-democratici di Israele, così pronti a celebrare ogni elezione come un trionfo della civiltà, così rapidi a indignarsi solo quando il loro entusiasmo rischia di sembrare troppo ingenuo. Se davvero amano Israele, se davvero credono nei valori che proclamano, dovrebbero pretendere, senza indulgenze, che Israele diventi ciò che dichiara di essere: una democrazia moderna, per tutti i suoi cittadini, senza gerarchie d’origine.

Perché, in fin dei conti, l’amicizia che conta non è quella che giustifica sempre e comunque, ma quella che ha il coraggio di esigere la verità, anche quando fa male.