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Venture capital, il paradosso italiano: paese ricco, startup povere


Post di Carlo Pasqualetto, CEO AzzurroDigitale –
Nel 2024 il venture capital italiano ha registrato numeri apparentemente incoraggianti: oltre 1,5 miliardi di euro raccolti attraverso 417 round di finanziamento, con una crescita di quasi il 30% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, questi dati assumono una dimensione ben diversa quando confrontati con il panorama internazionale.
L’Europa ha visto investimenti per oltre 57 miliardi di euro distribuiti in circa 9.600 operazioni, con Regno Unito, Francia e Germania che dominano la scena con cifre nettamente superiori a quelle italiane. Ancora più impressionante è il confronto con gli Stati Uniti, dove gli investimenti hanno superato i 210 miliardi di euro in circa 15.000 round.
Il paradosso italiano emerge in tutta la sua evidenza: siamo uno dei paesi con il maggiore risparmio privato al mondo, eppure fatichiamo a convogliare questi capitali verso l’innovazione. La crescita c’è, ma procede a un ritmo che difficilmente permetterà di colmare il divario con i principali competitor internazionali.
Le radici del problema
L’analisi delle cause di questo ritardo porta a una conclusione tanto scomoda quanto necessaria: il sistema italiano sconta una carenza di startup con modelli di business realmente innovativi e di imprenditori capaci di attrarre investimenti significativi.
Troppo spesso l’immobilismo viene giustificato con spiegazioni che finiscono per alimentare una paralisi sistemica, mentre gli ecosistemi concorrenti accelerano.
Un elemento particolarmente critico è la scarsità di exit significative. In Italia abbondano le operazioni seed e pre-seed, ma raramente si riesce a creare aziende pronte a consolidarsi e scalare a livello internazionale. Questa dinamica trasforma il venture capital in un sistema in continua perdita, incapace di generare i ritorni necessari per autoalimentarsi.
La differenza con l’ecosistema statunitense è sostanziale: mentre in Italia proliferano startupper alla ricerca di finanziamenti iniziali, negli USA si formano imprenditori capaci di creare aziende miliardarie in pochi anni. La visione è radicalmente diversa: oltreoceano le startup nascono con l’obiettivo di scalare rapidamente per essere acquisite o quotate, mentre in Italia questo traguardo rimane spesso un miraggio, anche a causa di un mercato unico europeo che, come sottolineato dal Presidente Mario Draghi, è ancora lontano dall’essere una realtà effettiva.
Un modello italiano per l’innovazione
Sarebbe ingenuo pensare di risolvere il problema semplicemente replicando il modello statunitense. L’Italia possiede un tessuto industriale solido, caratterizzato da aziende con radici profonde e competenze distintive, che rappresenta il vero punto di forza su cui costruire.
Un approccio efficace è quello delle imprese “plug-in”, teorizzato da Giulio Buciuni, professore del Trinity College di Dublino. Questo modello favorisce connessioni strutturali tra startup e grandi aziende: le prime ottengono accesso a capitali, mercati e competenze; le seconde accelerano i propri processi di innovazione senza i tempi e i rischi della R&D interna.
In questa prospettiva, le startup si trasformano da realtà isolate in unità agili di innovazione integrate nel sistema produttivo, capaci di generare valore sia per sé stesse che per l’intero ecosistema industriale.
Riforme necessarie: fiscalità e governance
Parallelamente, è necessario ripensare il sistema fiscale per premiare chi investe concretamente nell’innovazione. Un regime di incentivi basato sulle performance rappresenterebbe una misura efficace: le aziende che co-investono in progetti di ricerca e sviluppo dovrebbero ottenere benefici fiscali proporzionati ai risultati ottenuti. Non si tratta di distribuire fondi a pioggia, ma di creare un meccanismo premiale per chi genera valore misurabile.
Per costruire imprese di successo, tuttavia, non bastano capitali e incentivi: servono talento, visione e mentalità imprenditoriale. Le nuove idee senza esperienza manageriale restano esperimenti accademici, mentre l’esperienza senza innovazione si traduce in stagnazione. La creazione di un patto generazionale tra imprenditori, capace di mettere in connessione questi due mondi, rappresenta l’unica strada per sviluppare aziende competitive su scala internazionale.
Il ruolo delle grandi imprese
Le grandi aziende non devono limitarsi a “sponsorizzare” le startup, ma diventare parte attiva dell’ecosistema innovativo, con strategie concrete che superano la tradizionale filantropia aziendale. Devono essere pronte a condividere rischi e responsabilità di un’innovazione condivisa, affrontando insieme le sfide del mercato e della crescita dimensionale.
Questo approccio richiede un cambiamento culturale profondo, che vede nell’innovazione non un costo ma un investimento strategico, e nelle startup non semplici fornitori di tecnologia ma partner con cui co-creare il futuro industriale del paese.
Verso una nuova politica industriale
Il 2025 potrebbe rappresentare un anno di svolta, ma non possiamo permetterci di perdere ulteriore tempo. Il venture capital italiano deve trasformarsi in un acceleratore reale per la crescita dell’economia nazionale, non in un mero esercizio di stile.
Il nuovo Start up Act rappresenta un passo nella giusta direzione per iniettare capitali nel sistema, ma da solo non è sufficiente. È necessaria una nuova politica industriale che punti al rinnovamento del tessuto produttivo italiano attraverso la collaborazione sistematica tra grandi imprese, startup innovative e università STEM con vocazione imprenditoriale.
Serve un’iniziativa con l’impatto che ha avuto Industria 4.0, capace di trainare l’intero ecosistema delle startup. E serve ora: in un contesto globale in rapida evoluzione, il tempo è la risorsa più preziosa e quella che, purtroppo, non possiamo permetterci di sprecare ulteriormente.