categoria: Vicolo corto
Smart working sotto esame: neurobiologia vs organizzazione


Post di Carlotta Silvestrini, Fondatrice e Co-CEO di Mudra* –
Ricordo ancora il preciso istante in cui il mondo del lavoro si è sentito legittimato a cambiare. Seppure ancora disorientati dal cigno nero pandemico, per la prima volta dopo decenni avevamo la sensazione di poter reinventare tutto. Ci siamo interrogati sul senso di trascorrere 3 ore al giorno in auto per raggiungere l’ufficio, sul perché non potevamo svolgere da casa quell’attività solitaria di back office, su quanto fosse più salutare ed economico consumare un pasto sano nella nostra cucina anziché divorare un tramezzino al bancone del bar. Ragioni nobili che continuano ad alimentare una tendenza inarrestabile: nel 2025 gli smart worker in Italia saranno 3,7 milioni (+5% rispetto al 2024), secondo il Politecnico di Milano.
A rigor di logica, a questo dovrebbe corrispondere un aumento della produttività: più tempo a disposizione, un miglior work-life balance, meno stress. I dati, però, danno risultati opposti. La produttività continua a calare: -0,6% nel 2024 dopo il -1,5% del 2023, con solo un +0,6% atteso per il 2025 (dati Confindustria), il 28% degli italiani (+6% rispetto al 2022, Ipsos e AXA) riporta almeno un disturbo mentale. Anche le statistiche sullo stress lavoro-correlato sono preoccupanti: INAIL rileva che le denunce per malattie professionali legate a disturbi psichici e comportamentali sono aumentate del 17,9% rispetto al 2023.

Lavorare in solitudine può essere dannoso, secondo alcuni studi (designed by Freepik)
Difficile imputare la responsabilità a una causa specifica, ma la neurobiologia e la psicologia sociale ci forniscono una lunga serie di motivazioni in merito all’incompatibilità tra l’essere umano e una vita professionale full remote che le aziende devono iniziare a tenere in seria considerazione.
Partiamo dalle basi. Il sistema nervoso ha dei bisogni fondamentali, uno di essi è la socialità. Il contatto con gli altri favorisce la “co-regolazione”, uno scambio che favorisce il benessere emotivo attraverso la rilevazione del paraverbale e di tutti i segnali emessi dagli altri sistemi nervosi intorno a noi. Lavorando online, questo nutrimento è inaccessibile. Inoltre, la solitudine compromette struttura e funzioni cerebrali, favorendo ansia, depressione, demenze, ma – soprattutto – innesca risposte allo stress e attiva il sistema immunitario come se avessimo un’infiammazione.
Il secondo aspetto riguarda il comportamento. Numerosi studi di psicologia sociale dimostrano che è difficile ottenere performance elevate dal divano di casa. L’ambiente, gli oggetti e l’abbigliamento influenzano profondamente il nostro agire: è il principio della cosiddetta “cognizione abbigliata”. Se lavoriamo in tuta o – peggio – in pigiama, il cervello riceve il messaggio implicito di essere in modalità domestica e rilassata. Al contrario, in ufficio, vestiti da “manager”, tendiamo ad assumerne anche l’atteggiamento. Inoltre, il contesto lavorativo in presenza facilita l’attivazione mentale del ruolo professionale rispetto agli altri e il senso di appartenenza al gruppo dei colleghi. Sono meccanismi automatici, strategie della mente per ridurre lo sforzo e aumentare l’efficacia nelle decisioni quotidiane.

Se optiamo per lo smart working, dobbiamo assicurarci che sia smart nel senso letterale del termine (designed by Freepik)
Il terzo elemento è il mix tra la cultura del lavoro e il modo in cui essa si trasmette all’organizzazione. In Italia partivamo già svantaggiati. Merito, responsabilità individuale, buon senso sono stati da sempre schiacciati da modalità politiche, norme impositive, divieti. Questo ha innescato un cortocircuito culturale: abbiamo concesso un’autonomia senza precedenti a persone abituate da sempre a un sistema basato sul controllo gerarchico. Durante il lockdown abbiamo visto un sintomatico proliferare di dispositivi che simulavano il movimento del mouse. Ce ne sarebbe mai stato bisogno, in una cultura del lavoro caratterizzata da fiducia e proattività? Davvero, ci aspettavamo che persone controllate a vista dai superiori riuscissero a gestire in autonomia tempi e modalità delle attività remote, a maggior ragione in realtà dove non esistono obiettivi e metriche di risultato?
La scarsa conoscenza della scienza comportamentale alla base dei contesti sociali ha fatto sì che venisse anche trascurato tutto l’aspetto proprio del fare gruppo. La comunicazione interna, relegata ai margini delle attività prioritarie in azienda, è quasi scomparsa, con ripercussioni irreversibili sulla coesione dell’organico. Maggiore è la distanza fisica tra le persone, maggiore dev’essere l’investimento in presidi comunicativi costanti e in occasioni strutturate di condivisione – anche in presenza – per mantenere coesione e senso di appartenenza. Solo così si può coltivare ciò che lo psicologo sociale Kurt Lewin definisce “destino comune”: la percezione, cioè, di far parte di un percorso collettivo. Questa condizione, insieme alla regolarità delle interazioni nel tempo, è determinante affinché individui singoli si riconoscano come parte integrante di un gruppo e orientino i propri comportamenti in modo sinergico.
Tutto il lavoro va ripensato partendo da questi pochi principi basilari, affinché sia coerente con ciò che siamo impossibilitati a cambiare: la natura umana. Se optiamo per lo smart working, dovremo assicurarci che sia smart nel senso letterale del termine, perseguendo quel cambiamento culturale che ci permetta di abbandonare i modelli basati sul controllo e riscrivendo le regole nel rispetto di ciò che milioni di anni di evoluzione hanno inciso indelebilmente in noi.
Fonti scientifiche:
- – Neurobiology of loneliness: a systematic review
- – Affective Neuroscience of Loneliness: Potential Mechanisms underlying the Association between Perceived Social Isolation, Health, and Well-Being
- – Effects of Social Isolation on Glucocorticoid Regulation in Social Mammals
*Advisory company italiana che pone al centro gli asset intangibili come leva fondamentale per la crescita aziendale.