categoria: Vicolo corto
Dazi Usa: i rischi per l’Italia e cosa fare davvero


Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –
No, numeri alla mano, iniziamo a capire che non era un buon accordo (e men che meno definitivo). Forse non si poteva fare di più, per evitare un’escalation di dazi reciproci; forse era il miglior accordo fra quelli possibili, non avendo alternative diverse dal rispondere a dazi su dazi (anche se resteremo col dubbio se rispondere colpo su colpo non avrebbe indotto la nuova amministrazione americana a più miti consigli).
A ben vedere, forse non è stato nemmeno un “accordo” in senso tecnico, essendo ancora dubbia la legittimazione (e la obbligatorietà) di quei 600 miliardi di investimenti europei promessi (negoziati con quale legittimazione di bilancio? a che titolo? Che verranno effettuati da chi? E chi sceglierà dove/quando investire e a che condizioni?).
E, stando alle cronache giudiziarie americane, neppure era legittimata (beninteso, in termini di procedura seguita, non di volontà politica) la nostra controparte, ansiosa di affermare il proprio potere a scapito del commercio mondiale (volumi di export docet) e finanche del tasso di cambio della propria valuta (svalutato tra il 10 e il 15% in questi mesi, rispetto alle principali valute mondiali, acuendo l’effetto sui prezzi all’importazione già impattati dai dazi stessi).
Le conseguenze del protezionismo
Il fatto è che i numeri non hanno colore politico. E andrebbero capiti, prima di cercare di sfruttarli politicamente. E, ovviamente, cimentarsi su quali siano gli effetti della politica tariffaria protezionistica, sull’economia americana stessa. E quali, sul resto del mondo? E per l’Italia?

Il trend inflattivo Usa è in crescita, il cambio si è progressivamente indebolito e si sono innescate preoccupazioni sulla domanda estera di titoli di Stato (designed by Freepik)
Andando nell’ordine, dal lato americano qualcosa si inizia ad intravedere e non è nella direzione auspicata dalla presidenza Trump.
La nuova politica economica americana sta puntando sulla rimodulazione delle tariffe doganali (vero nome dei dazi) nell’intento di riequilibrare il deficit commerciale verso l’estero e di generare un effetto di reshoring delle industrie manifatturiere, quest’ultimo annunciando affievolimento del regime fiscale delle imprese (anche attraverso l’uscita dall’accordo OCSE sulla minimum global tax del 15% e altre misure discutibili quali la sospensione delle regole anticorruzione internazionali e dello scambio di informazione dei titolari effettivi delle società). Quindi un “pagate di più per le merci all’ingresso” contro un “pagate meno se producete qui”, con l’indiretto obiettivo di rilanciare l’occupazione manifatturiera domestica.
Solo che questa visione “secolare” dell’economia, ancorata a canoni industriali pre-globalizzazione, che mette in discussione la convenienza economica della teoria della specializzazione delle produzioni – in estrema sintesi: “produrre le cose ad alto valore aggiunto e comprare all’esterno le cose a basso valore aggiunto” – si sta scontrando con la realtà, più testarda di quanto sembri.
Un trilemma per le imprese americane
Intanto, le imprese americane, posto che i dazi disincentivano le opzioni di “buy out” di prodotti e componentistica, ora si trovano di fronte al trilemma fra (i) accettare i maggiori costi dei dazi, riducendo il proprio margine in termini reali, o (ii) accettare di riportare “dentro” le lavorazioni a basso valore aggiunto, riducendo la marginalità percentuale complessiva di performance, ovvero ancora (iii) aumentare i prezzi finali, per mantenere il margine messo a rischio con una delle due precedenti opzioni, rischiando però di avere un impatto negativo sui volumi delle vendite.
I primi dati sull’assorbimento dei dazi ci dicono infatti che non corrisponde al vero che questi siano (completamente) “a carico” dei Paesi esteri, ovvero delle loro imprese esportatrici – queste subiscono il rischio di un danno maggiore sui volumi di export, soprattutto per le produzioni a bassa fascia di prezzo e per le imprese medio-piccole con bassa forza contrattuale – bensì gravano (dati disponibili aggiornati a giugno) per poco meno del 10% complessivo sugli esportatori, per circa il 31% sui consumatori finali e per ben circa il 59%, appunto, sulle imprese importatrici stesse.
Morde l’inflazione, alta pressione sui tassi
In aggiunta, i dati ad oggi disponibili ci dicono che il trend inflattivo USA è in crescita, sostenuto più che proporzionalmente dal segmento dei beni all’importazione, il cambio si è progressivamente indebolito (una fase come quella attuale, di perdurante svalutazione del cambio e di contestuale mantenimento elevato del differenziale dei tassi reali sul debito rispetto alle altre valute principali, è anomala per un’economia sviluppata, essendo invece tipica delle economie più rischiose) e si sono innescate preoccupazioni sulla domanda estera di titoli di Stato americani, contribuendo a mantenere alta la pressione sui tassi di interesse.
Però le borse tengono, dicono i sostenitori della nouvelle vague economica americana. Andrebbe aggiunto “fin qui”, per via della liquidità presente sui mercati e del costo del disinvestimento in un momento di debolezza della valuta (si monetizzerebbero le minusvalenze sui cambi azzerando – in tutto o in parte – i guadagni nominali maturati). Ma l’incertezza pesa sul futuro ed è difficile ad oggi fare previsioni attendibili su come andranno le borse e sull’impatto che avrà l’apertura istituzionale alle “stablecoin” (che, al netto delle polemiche e dei dubbi che le avvolge, investendo il sottostante in asset espressi in dollari, potrebbero generare flussi tali da sostituire in parte la domanda estera, calmierando le pressioni sui tassi).
Nell’economia globale comincia a calare la fiducia
Sotto altro punto di vista, dal lato “resto del mondo”, cosa sta avvenendo, invece? Un po’ ovunque si intravedono segnali di calo della fiducia nell’economia globale e, conseguentemente, sui consumi mentre, dall’altro, si stanno iniziando a vedere avvisaglie di un (necessario) riequilibrio dei mercati commerciali di sbocco, con effetti a macchia di leopardo.
Se, in effetti, si possono anche aprire nuove opportunità commerciali, i settori ad alta pressione competitiva (i.e. a basso valore aggiunto e/o di bassa fascia “qualità/prezzo”) rischieranno di subire, a livello domestico, una maggior aggressione di prodotti rinvenienti dalle economie in via di sviluppo e/o a basso costo della manodopera.
Il rischio delle fluttuazioni dei cambi
Inoltre, si nota in questi mesi una crescente richiesta – da parte di aziende multinazionali e medio-grandi americane, che prima acquistavano beni e semilavorati con le proprie consociate fuori dagli USA in valuta locale – di acquistare direttamente dalle proprie società americane e/o comunque di ricevere fatturazioni direttamente in dollari, scaricando il rischio delle fluttuazioni dei cambi (maggiori, come visto, in questa fase) sui fornitori.

Lo stato di salute dell’economia italiana? Iniziamo, in parte, a scontare gli effetti della “guerra dei dazi” trumpiana, che si somma alla purtroppo perdurante incertezza geo-politica internazionale (designed by Freepik)
Con l’effetto, da un lato, di maggior difficoltà per questi ultimi, che non sempre, soprattutto se medio-piccoli, sono strutturati per gestire tale rischio finanziario compiutamente (coordinando fra loro strumenti di copertura, burocrazia fiscale aggiuntiva e negoziazione commerciale dei prezzi) e, dall’altro, di innescare una nuova fase di equilibri dei flussi finanziari a livello macro, con l’esigenza per le banche (anche quelle piccole) di una modifica dell’offerta di servizio/prodotto (possibilmente senza gli “eccessi” della stagione dei “derivati” di inizio anni duemila) e una maggiore attenzione alle valutazioni dei profili di rischio (finanziario e strategico) delle imprese prenditrici di debito.
Un’Italia meno brillante degli annunci
E in Italia? A fine agosto, l’ISTAT ha emesso tre comunicazioni sullo stato di salute (spoiler: meno brillante degli annunci in politichese) dell’economia italiana: in parte, iniziamo già a scontare gli effetti della “guerra dei dazi” trumpiana, che si somma alla purtroppo perdurante incertezza geo-politica internazionale.
A fronte di una contrazione del PIL di –0,1% nel secondo trimestre 2025, la crescita acquisita nel 2025 è pari al +0,5% (meno della previsione dell’1%, prima, e dello 0,7%, poi, contenuta nei documenti governativi) mentre le esportazioni sono diminuite dell’1,7% e si registra un peggioramento dell’indice di fiducia dei consumatori da 97,2 a 96,2 nonché – pur rimanendo sostanzialmente stabile quello complessivo delle imprese a 93,6 – l’indice diminuisce nel comparto industriale da 87,8 a 87,4, con un peggioramento delle aspettative sul livello della produzione.
Balena il rischio di una fase di stagflazione
Invece, l’inflazione NIC ad agosto ha fatto registrare un +0,1% mensile e un +1,6% sui dodici mesi, portando il dato acquisito a +1,7% per l’indice generale ma +2,1% per la componente di fondo (quella che orienta le decisioni sui tassi della banca Centrale), facendo temere ad alcuni il rischio di una fase di stagflazione, ovvero crescita economica sostanzialmente nulla (o negativa) e contestuale inflazione.
Inoltre, si riscontrano avvisaglie non meno difficili sul fronte del credito, dove i volumi sono calati di circa il 20% negli ultimi tre anni, il tasso di default prospettico delle imprese sta rialzando la testa e, per ragioni di bilancio, il Governo si appresta a modificare, restringendone i requisiti di accesso, il framework delle garanzie pubbliche sui finanziamenti delle PMI. Non proprio il momento ideale, da un certo punto di vista.
No ai sussidi, sì consolidare il sistema industriale
Piuttosto che sussidiare gli esportatori (accollando alla collettività il costo derivante dai dazi USA), come pare qualcuno stia pensando, occorrerebbe lavorare per un consolidamento del nostro sistema industriale, favorendo (anche fiscalmente) le aggregazioni fra imprese e sostenendo una corretta politica di credito. Ricorrendo a (e agevolandole) forme di finanziamento virtuose (i.e. matusalem financing, prestiti partecipativi, strumenti convertibili a supporto di quotazioni in borsa).