Perché l’innovazione ha bisogno dei non-eventi

scritto da il 29 Settembre 2025

Post di Giuseppe De Nicola, Direttore Generale di Fondazione Ampioraggio

Quando parliamo di innovazione, il pensiero corre spesso ai grandi eventi: palchi luminosi, panel serrati, ospiti illustri. In quei contesti l’innovazione appare come un racconto già confezionato, fatto di annunci e visioni, ma l’esperienza ci insegna che la parte più importante non accade sul palco. Accade dopo, quando le persone restano a parlare, quando emergono i bisogni concreti, quando ci si mette in gioco davvero.

Per questo credo che oggi servano i “non-eventi”: luoghi che non nascono per mostrare ma per costruire, che non finiscono con l’ultima slide ma lasciano dietro di sé relazioni, reti, progetti.

Innovare è un fatto di relazione

La tecnologia è importante, certo, ma senza relazioni rimane sterile. Innovare significa creare legami nuovi: tra pubblico e privato, tra città e aree interne, tra generazioni diverse. I non-eventi servono a questo: a generare fiducia, a dare tempo all’ascolto, a trasformare i problemi in occasioni di confronto. Non servono platee da migliaia di persone: bastano contesti dove tutti si siedono allo stesso tavolo e hanno la possibilità di contribuire: è lì che l’innovazione smette di essere un concetto astratto e diventa un processo condiviso.

Viviamo in un tempo che ci spinge ad accelerare sempre. Ma i territori, soprattutto quelli più fragili, hanno bisogno di processi lenti ma costanti, capaci di tenere insieme passato e futuro. I non-eventi scelgono luoghi lontani dai centri del potere – borghi, periferie, aree interne – e li trasformano in laboratori.

Non è una scelta romantica: è un modo per restituire centralità a chi troppo spesso resta ai margini; l’innovazione non deve stare solo nelle metropoli, ma deve diventare accessibile, vicina, parte della vita quotidiana delle comunità.

E i numeri parlano chiaro

Oggi i borghi rappresentano una realtà diffusa e rilevante dell’assetto amministrativo italiano, sono 5.521 e rappresentano il 69,85% dei 7.904 comuni italiani. I 5.521 borghi hanno una popolazione complessiva di circa 10 milioni di residenti, equivalenti al 17% della popolazione italiana e con estensione geografica che occupa il 54% del Paese[1]. Eppure continuano a perdere abitanti.

non-eventi

Il valore dei non-eventi: comunità che si incontrano e costruiscono insieme (designed by Freepik)

Solo per fare un esempio: da un quarto di secolo il Molise affronta una situazione di spopolamento. Lo stesso Piano Regionale 2025-27 ha lanciato l’allarme: la popolazione è scesa a 289.224 abitanti (Istat 2024), con una perdita di circa 31.000 residenti dal 2000. Si tratta del 10% in meno[2].

Se non si interviene con approcci nuovi, queste comunità rischiano di diventare “non-luoghi”.

Oltre la retorica dell’evento

Il problema non sono gli eventi in sé, ma l’idea che basti un evento per fare innovazione. Sappiamo che non è così: servono continuità, reti, strumenti. I non-eventi provano a costruire questo: processi che iniziano prima e continuano dopo, che non si esauriscono nella narrazione ma trovano applicazione concreta.

In un’epoca segnata da crisi ambientali, sociali ed economiche, la differenza non la farà chi riesce a organizzare il palco più grande, ma chi saprà dare risposte concrete ai territori, alle imprese, alle comunità.

E anche sul piano economico, i non-eventi hanno un senso: costano meno di grandi fiere o summit, valorizzano spazi già esistenti, attivano economie locali spesso dimenticate e generano impatti duraturi, tra cui posti di lavoro, reti di imprese, attrattività territoriale.

La tecnologia non basta

Ma c’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato. I non-eventi funzionano quando rispettano alcune condizioni precise. Prima di tutto la partecipazione dal basso: i cittadini e le comunità locali non sono spettatori, ma co-creatori, capaci di orientare i progetti con i loro bisogni reali. Poi la continuità: un non-evento non si chiude con la data sul calendario, ma lascia in eredità relazioni e reti che vanno sostenute anche dopo.

C’è il tema della contaminazione disciplinare, perché le sfide complesse non si risolvono con la sola tecnologia, ma intrecciando cultura, sociale, impresa, arte e ricerca. Infine, i benefici misurabili: meno spese di rappresentanza, più ricadute concrete – nuove opportunità di lavoro, valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale, risposta allo spopolamento che minaccia tanti territori interni. È in questa capacità di unire risorse diverse e trasformarle in impatto duraturo che si misura il vero valore dei non-eventi.

Se vogliamo, quindi, che l’innovazione diventi davvero sostenibile e inclusiva, dobbiamo spostare l’attenzione: meno riflettori, più ascolto; meno frenesia, più continuità; meno centralità dell’evento, più centralità delle persone. I non-eventi non sono la negazione del confronto pubblico, ma la sua evoluzione. Sono il tentativo di dare forma a un’innovazione che non si misura in applausi, ma in legami che durano e in progetti che restano.

NOTE

[1] Borghi, quanti sono e cosa fanno (Dabimus.com)

[2] Spopolamento, in Alto Molise indice di invecchiamento al 372% (Ansa.it)