Obsolescenza lavorativa: davvero l’AI ci ruba il posto?

scritto da il 02 Ottobre 2025

Post di Chiara Bacilieri, esperta di lavoro, Direttrice dell’Innovazione di Mindwork

Timore, curiosità, scetticismo. Ogni rivoluzione porta con sé emozioni miste. È successo con la prima macchina a vapore, poi con Internet; oggi tocca all’intelligenza artificiale, che però corre a una velocità senza precedenti. Tra le domande che solleva, ce n’è una ricorrente: “Ci ruberà il lavoro?”. I dati raccontano uno scenario più sottile: non un crollo generalizzato dell’occupazione, ma una trasformazione profonda di mestieri e competenze.

Cosa sentono le persone, e cosa dicono i numeri

Oltre la metà dei lavoratori si aspetta che l’AI cambi il proprio lavoro nei prossimi anni (57%) e più di un terzo teme addirittura la sostituzione (36%). È la fotografia dell’indagine Ipsos condotta in 31 Paesi: un termometro di un’“AI anxiety” reale, non solo mediatica.

In Italia, le preoccupazioni esistono ma non passano (ancora) dai saldi occupazionali. Secondo i dati Istat, a giugno 2025 il tasso di disoccupazione è al 6,3% con l’occupazione in lieve crescita: nessuna “onda d’urto” visibile nelle statistiche. Eppure il rischio di obsolescenza è concreto: una quota dei lavoratori (circa un terzo) teme che le proprie competenze possano diventare rapidamente superate.

“L’AI ci sostituirà?”

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro parla di “esposizione” più che di sostituzione: la GenAI tende a trasformare i lavori più che a eliminarli; automatizza fasi e compiti dentro i mestieri, senza cancellarli in blocco. L’impatto è più visibile nei Paesi ad alto reddito, dove pesano attività d’ufficio e amministrative.

In altre parole: molti lavori restano, ma cambiano pelle. Le mansioni più meccaniche si automatizzano mentre crescono quelle complementari: gestire sistemi digitali, interpretare dati, integrare strumenti di AI nel quotidiano.

I mestieri in calo, e mestieri che crescono

Il Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum stima che entro il 2030 circa il 22% dei posti di lavoro formali vivrà una trasformazione significativa, spinta da più forze: evoluzione tecnologica (AI inclusa), cambiamenti demografici e dinamiche geopolitiche.

Guardando ai mestieri, la tendenza è piuttosto netta: a ridursi più rapidamente sono i ruoli di segreteria e amministrativi, insieme a impiegati postali, cassieri bancari, addetti al data entry. In flessione anche i contabili e i revisori. Al contrario, l’adozione tecnologica spinge la domanda per profili AI e big data, ingegneri software, cybersecurity, oltre ai ruoli legati all’espansione dell’economia digitale.

AI

Un punto da non trascurare: non calano solo i compiti ripetitivi. Anche i mestieri creativi vedono automatizzarsi alcune fasi, soprattutto dove la produzione di contenuti è standardizzabile. L’impatto, qui, riguarda più i singoli compiti che l’intera professione: la linea di demarcazione passa tra ciò che è ripetibile e ciò che richiede contesto, giudizio, relazione.

A proposito di creatività: l’AI “crea” davvero?

L’AI rielabora ciò che conosce: macina dati, individua schemi, ricombina in modo probabilistico. Il risultato può essere talmente sofisticato da sembrare nuovo, ma l’originalità è – per definizione – statistica. La creatività umana, invece, rompe gli schemi: interpreta valori, assume rischi, introduce discontinuità. Qui sta il baricentro della complementarità: alle macchine l’efficienza di calcolo, alle persone senso, criteri e direzione.

Le competenze che ci distinguono come esseri umani

Se il lavoro cambia, la vera frizione non è tra “posti in più o in meno”, ma tra competenze aggiornate o obsolete. Anche su questo il World Economic Forum è chiaro: oltre all’alfabetizzazione tecnologica (AI e big data, reti e cybersecurity), crescono di valore competenze prima considerate “di serie B”, ovvero le cosiddette competenze “soft” o trasversali: pensiero critico e analitico, resilienza, flessibilità, agilità mentale, curiosità e apprendimento continuo, leadership e influenza sociale. Abilità umane che diventano più, non meno, decisive man mano che gli algoritmi avanzano.

Ambienti di lavoro che abilitano (o spengono) le competenze

C’è un corollario spesso ignorato: ciò che le persone sanno e sanno fare non sempre si vede sul lavoro. Dipende da quanto sono messe nelle condizioni di esprimerlo. La creatività umana si distingue da quella “artificiale” perché rompe gli schemi, ma se vogliamo pensiero divergente, domande nuove e idee che sfidano lo status quo, servono contesti che li rendano praticabili. Qui entra in gioco la sicurezza psicologica: poter sbagliare, dissentire ed esporsi senza timore di ritorsioni o giudizi negativi. Non è solo cultura aziendale: la sicurezza psicologica è un abilitatore dell’innovazione. Secondo l’European Workforce Study 2025, tra chi si sente in un contesto psicologicamente sicuro il 75% dichiara di avere opportunità per sviluppare cose nuove e migliorare ciò che fa, contro il 33% tra chi non si sente sicuro.

E l’Italia, ora?

In un mondo del lavoro che cambia, una partita decisiva si gioca sull’aggiornamento continuo: senza investimenti continui in formazione e riqualificazione rischiamo di ampliare le disuguaglianze tra chi sa usare l’AI e chi ne resta fuori. Con politiche mirate, la rivoluzione può diventare occasione di crescita e redistribuzione di competenze. È qui che imprese, scuola e istituzioni devono collaborare: aggiornare i mestieri e – insieme – abilitare le competenze che li rendono vivi.

La risposta breve alla domanda lunga

E allora: l’AI ci ruberà il lavoro? Dipende. Alcuni mestieri caleranno, molti cambieranno, altri nasceranno. Il punto non è solo se il posto resta, ma come si fa quel lavoro. Il rischio oggi è l’obsolescenza delle competenze: senza nuovi strumenti – tecnologici e umani – fatichiamo a generare valore. Il futuro si decide su due assi: alfabetizzazione all’AI e competenze umane. Senza la prima non dialoghiamo con gli algoritmi; senza le seconde non diamo direzione alle scelte, anche tecnologiche. E qui contano i contesti in cui lavoriamo: sicurezza psicologica per fare nuove domande, dissentire, sperimentare, sbagliare. La posta in gioco non è (solo) il lavoro in sé: è la nostra capacità di renderlo utile domani.