Guerre, piazze, oro: tre segnali di un cambio d’epoca

scritto da il 12 Ottobre 2025

Ogni sistema, quando perde coerenza, dà segnali di squilibrio: le guerre si prolungano, le piazze si riempiono, le valute-rifugio perdono la fiducia dei mercati. È in questi momenti che l’ordine si dissolve e ne emerge un altro. La modernità non procede in linea retta: si ricalibra nelle fratture, reinventando gli strumenti di sopravvivenza.

1. Geopolitica: la fine di un ordine a lungo congelato

La guerra tra Russia e Ucraina e il conflitto tra Israele e Hamas sono episodi diversi ma riconducibili alla stessa faglia: mettono in crisi la vecchia architettura di sicurezza nata dopo il 1945 e consolidata durante la Guerra Fredda.

In Europa orientale, il conflitto ucraino — innescato nel 2014 e divenuto guerra aperta nel 2022 — ha riaperto il tema dei blocchi di potere e dell’allargamento della NATO. La Russia tenta di riaffermarsi come potenza regionale; l’Alleanza Atlantica estende i propri confini settentrionali, includendo la Finlandia (dal 2023) e la Svezia (dal 2024). Entrambe le parti reagiscono alla stessa paura: perdere la presa su un mondo che non risponde più ai comandi del passato.

Nel Medio Oriente, la guerra è tornata a essere una scorciatoia identitaria per poteri in crisi. La forza come strumento primario di legittimazione crea nuova violenza e ravviva progetti coloniali in una regione in cui gli interventi militari — da Suez all’Iraq — hanno prodotto instabilità, non sicurezza.

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Il dollaro sotto pressione è indice di cambiamenti epocali (immagine da Freepik)

Il sistema internazionale si sfalda e fatica a rigenerarsi: la transizione da un ordine unipolare (guidato dal dollaro e da decisioni prese a Washington) a uno multipolare è per natura conflittuale. La tecnologia ha accorciato le distanze e l’economia ha reso interdipendenti i blocchi, ma la politica resta ancorata a logiche novecentesche: è qui che nasce la crisi. Le reti di controllo regionali — NATO in Europa, Hong Kong come finestra asiatica, Israele come baluardo mediorientale, l’arco slavo come contenimento a est — mostrano la corda. Gli Stati-nazione, ossessionati dai confini, rivelano obsolescenza funzionale.

2. Società: i giovani come nuovi agenti etici

Mentre le grandi potenze si irrigidiscono, le piazze si muovono. Dai campus americani alle università europee, milioni di studenti manifestano contro le guerre, per il clima e per i diritti. Non sempre organizzati, ma con una richiesta netta: coerenza tra valori dichiarati e comportamenti reali.

Nel 2024–2025 le manifestazioni pro-Palestina hanno riaperto un linguaggio etico che sembrava dimenticato. Molti attivisti ignorano i dettagli del conflitto, ma tutti riconoscono l’ingiustizia del dolore civile: un’intuizione morale, non ideologica, che si afferma come domanda di umanità.

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I giovani sono agenti etici del cambiamento (immagine da Freepik)

Meglio una coscienza ingenua che una mente spenta: dopo anni di comfort del “politically correct”, vedere la nuova generazione rientrare nello spazio pubblico è, di per sé, una buona notizia. I giovani sono agenti etici del cambiamento: portano in piazza la sensibilità collettiva e la trasformano in pressione sociale. Non incarnano ideologie, ma una domanda di coerenza che sale dal basso; la loro etica istintiva anticipa istituzioni che ancora non esistono: quando cambia la sensibilità, la politica è costretta a seguirla. Ogni modernizzazione comincia così: da una scintilla morale che costringe le strutture a reinventarsi.

3. Economia: il prezzo della sfiducia

L’oro ha superato i 4.000 dollari l’oncia, con un incremento vicino al +50% su base annua. Le banche centrali — dalla Cina alla Turchia — ne hanno intensificato gli acquisti, e molti investitori lo hanno preferito ai titoli di Stato come rifugio contro l’instabilità geopolitica e valutaria.

La corsa all’oro è un referendum sulla fiducia monetaria. Non è la prima volta: dopo il crollo di Bretton Woods (1971), l’oro moltiplicò il suo valore in due anni, riflettendo la crisi di convertibilità del dollaro. Oggi il parallelo è nelle cause — inflazione elevata, debiti sovrani crescenti, sanzioni dettate dalla politica. Con il sistema Swift la moneta è diventata strumento di controllo: ogni transazione è tracciata e può essere bloccata. L’intreccio tra potere finanziario e informatico spinge la ricerca di riserve di valore non digitali.

L’oro è il termometro di un sistema che percepisce le proprie istituzioni come fragili e teme che il dollaro non basti più a garantire stabilità. È un segnale economico con radici politiche: dove vacilla la fiducia, il capitale fugge; dove cresce la percezione d’ingiustizia, la società reclama nuove regole. Manca una governance capace di tradurre la domanda di sicurezza in regole condivise.

Transizione di civiltà: che ne sarà dello Stato-nazione?

Il mondo ottocentesco-novecentesco era costruito su blocchi contrapposti tenuti insieme dalla minaccia della forza. Agli imperi si aggiunsero gli Stati-nazione, nati dal principio “a ogni popolo la sua patria”, presto divenuto giustificazione coloniale. La guerra ristabiliva l’equilibrio; la potenza si misurava nel dominio di risorse e popoli; il progresso nell’espansione dei confini; la crescita in carbone e acciaio. Il potere coincideva con la capacità di concentrare territorio, energia e informazione. Era un mondo verticale, fondato sul controllo e sull’idea che la forza potesse sostituire la legittimità.

Oggi quel paradigma non regge più. La guerra, nell’era nucleare e digitale, non ristabilisce l’ordine: lo disintegra in diretta. La democrazia deve governare la complessità senza cedere alla paura. La crescita non può restare fossile per non aggravare il cambiamento climatico. Le migrazioni mostrano che la sopravvivenza dipende dall’interdipendenza. L’autosufficienza nazionale è un’illusione. Il mondo che nasce non cerca imperi, ma equilibri negoziati — orizzontali, sostenibili, interdipendenti. La legittimità non nasce più dalla forza, ma dalla funzione svolta per la vita collettiva.

I segnali convergono: tre livelli — geopolitico, sociale, economico — descrivono lo stesso fenomeno: un ordine che non regge la realtà che ha creato. Le guerre mettono a nudo l’impotenza delle vecchie architetture; le piazze rifiutano la confusione tra forza e legittimità; i mercati cercano nuovi ancoraggi.

Non è collasso, è transizione di civiltà. La storia cambia attraverso tensioni: prima si incrina l’etica condivisa, poi nascono nuove istituzioni. Ogni svolta storica — ogni critical juncture — produce doppia ricalibrazione: morale e istituzionale. Lo Stato-nazione sopravvivrà se saprà trasformarsi: da baluardo di sovranità a piattaforma di cooperazione.

L’Europa e il compito della lucidità

L’Europa conosce la fatica della rinascita. Ha imparato che ogni crisi è anche un’occasione di aggiornamento etico. Dovrebbe essere il continente della lucidità, non della nostalgia.

Il compito oggi è accompagnare la transizione — non con eserciti, ma con istituzioni. Serve un’Europa che governi l’interdipendenza, ridistribuisca rischi e risorse, difenda il progetto prima dei confini.

La leadership europea non consiste nel negare la frattura, ma nell’assumerla e scegliere un campo: cooperazione, responsabilità, dignità. Per contare, l’Europa deve tornare a decidere: regole comuni sulla transizione energetica e sul debito, gestione ordinata dei flussi migratori, capacità industriale condivisa. Servono leader con responsabilità chiare e autonomia dagli interessi globali. L’Europa deve tornare laboratorio di metodo: la complessità non si semplifica, si governa.

Tradurre il caos in ordine

Il mondo cambia su tre fronti — potere, società, economia — e ciascuno racconta la stessa urgenza: costruire un nuovo equilibrio.

Le guerre ridisegnano le mappe, i giovani ridanno voce alla coscienza collettiva, l’oro misura una fiducia che arretra: segnali di un ordine che si disgrega e di un altro che tenta di nascere.

L’urgenza: costruire un nuovo equilibrio, ritrovare insieme l’orientamento (immagine da Freepik)

Ogni epoca sopravvive solo se traduce il dolore in struttura. È il compito che ci spetta: ricostruire istituzioni all’altezza della coscienza risvegliata. Non basteranno mercati né Stati: servirà un contratto nuovo, fondato su reciprocità e responsabilità.

La modernità è questo: un esercizio continuo di ricalibrazione morale e istituzionale — non un ritorno al passato, ma un atto di lucidità verso il futuro.

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