La spending review funzionerà quando sarà guidata dal presidente del Consiglio

scritto da il 10 Novembre 2015

A sorpresa ieri sera durante la trasmissione “L’erba dei vicini”, il professore della Bocconi Roberto Perotti ha, in modo disincantato, risposto a Beppe Severgnini dicendo di aver dato sabato scorso le dimissioni da commissario alla spending review (dove operava in coabitazione con Yoram Gutgeld) perché “non mi sentivo molto utile”.

Le dimissioni di Perotti sono una pessima notizia poiché dimostrano che neanche persone illuminate e capaci (rileggetevi, vi prego le analisi di Perotti sui privilegi degli ambasciatori italiani che guadagnano due volte e mezzo quelli tedeschi: a Tokyo l’ambasciatore italiano prende 27.028 euro al mese, mentre quello tedesco 10.018) riescono a incidere sul livello della spesa pubblica corrente.

Le esperienze negli ultimi anni di Giarda, Bondi, Cottarelli e Perotti, senza tangibili risultati, sono la prova provata che conta la volontà politica, che è debole. Se non si vogliono toccare gli interessi di alcuni, si evita di fare gli interessi di molti. I risultati sono inefficienze, sprechi, bassa produttività, corruzione, e soprattutto assenza di risorse per gli investimenti.

perotti

Cinque considerazioni si impongono:
1) Le aspettative su una riduzione della spesa pubblica corrente sono state generate da Matteo Renzi, che all’atto del suo insediamento manifestò fiducia a Carlo Cottarelli (scelto da Fabrizio Saccomanni) e promise tagli nell’ordine di 20 miliardi l’anno; oggi si parla di tagli di soli 4 miliardi su una spesa pubblica corrente (senza contare gli interessi sul debito) annua di circa 700 miliardi di euro (è lo 0,5%, un’inezia).

2) Mentre i commissari alla revisione della spesa si succedono, l’opinione pubblica è scossa dalle notizie a tambur battente di corruzione, assenteismo, truffa nel pubblico impiego e nelle società partecipate. Gli esempi del Comune di Sanremo – dove si timbrava e si tornava a letto – o del debito crescente (ora superiore ai 14 miliardi) del Comune di Roma sono solo quelli più eclatanti.

3) Secondo alcuni il livello di spesa pubblica italiana non è alto, se lo compariamo ad altri Paesi europei. A parte il fatto che l’efficienza dei nostri servizi pubblici è spesso da terzo mondo, purtroppo non si comprende abbastanza che un confronto di questo tipo non rileva. Come ha spiegato Carlo Cottarelli (“La lista della spesa”, 2015, Feltrinelli, p. 112), il livello di spesa pubblica dipende da quanto un Paese si può permettere. Con un debito pubblico pari al 135% del Pil dire che la nostra sanità costa pro-capite meno della Germania, e quindi non va tagliata, è una “boiata pazzesca” (Fantozzi, cit.). Secondo Cottarelli, la spesa pubblica italiana eccede quello che ci possiamo permettere di almeno un 2 e mezzo per cento del pil, ovvero circa 40 miliardi.

4) Forse bisognerebbe accontentarsi – una strategia di second best – di uffici della Pubblica Amministrazione più efficienti. Si dovrebbe fare più con meno (Luca Meldolesi, cit.). Se non si riesce a ottenere una riduzione di costi, allora si punti a una maggiore efficienza con revisione di processi, procedure, trasferimenti delle persone dove servono, sistemi di incentivazione (se tutti i dirigenti prendono il 100% del premio di produttività, non si va da nessuna parte).

5) Bisogna concentrare l’attenzione sulla composizione della spesa pubblica. La maggior parte della riduzione della (crescente) spesa pubblica è stata ottenuta negli anni scorsi – invece che con riduzioni di spesa corrente – tramite il taglio degli investimenti. Se si osservano le tabelle del Documento di Economia e Finanza, il taglio previsto  è del 10,4% dal 2015 al 2019.

Nella recente audizione del vice direttore generale della Banca d’Italia Luigi F. Signorini  si legge (a pagina 12): “Il contenimento della spesa primaria corrente è una condizione fondamentale per il risanamento dei conti pubblici. […] Vi sono però limiti alla pura e semplice compressione delle spese; in prospettiva, non sarà inutile verificare, anche sulla scorta di esperienze disponibili in ambito internazionale, se vi sono aree in cui si possano ridurre i costi per la collettività dando al mercato maggiore spazio di azione in materie di interesse collettivo, sotto controllo, regolamentazione e indirizzo pubblici”.

Signorini invita a riflettere sul perimetro di attività della pubblica amministrazione. Vi ricordate che anni fa venne indetto un referendum per ottenere il beneplacito per la vendita della Centrale del Latte di Roma, considerato evidentemente “bene strategico di interesse nazionale”? Ecco, facciamola finita con attività che possono tranquillamente essere erogate dai privati, con minore spesa e garantendo migliori livelli di servizio.

Ha certamente ragione Massimo Bordignon che ragionando di sanità sul Sole 24 Ore – ma le sue considerazioni valgono per la spesa pubblica allargata – ha scritto: “È bene che ci abituiamo all’idea che, tolte le inefficienze, ciò che possiamo offrire tramite il settore pubblico sul piano sanitario, come in qualunque altro settore, è quello che il Paese può permettersi”.

Voglio chiudere con le sagge parole di Roberto Perotti: “Nessun governo può chiedere sacrifici ai propri cittadini se prima non dimostra di saper dare una spallata ai privilegi più assurdi. È una semplicissima questione di credibilità”.

È opportuno che il premier Renzi prenda ad interim il ruolo di Commissario straordinario alla revisione della spesa e difenda pubblicamente i provvedimenti proposti. Altrimenti avremo dimissioni di persone competenti e capri espiatori per i gonzi.

Twitter @beniapiccone