Sharing economy act, un buon inizio ma diamo alle piattaforme il diritto di innovare

scritto da il 07 Marzo 2016

Pubblichiamo un post di Benedetta Arese Lucini, imprenditrice dell’economia 2.0. Dieci anni di esperienza in giro per il mondo, in 8 paesi e 3 continenti. Da qualche anno prova a portare l’innovazione anche in Italia, prima come country manager di Uber, poi come consulente per diversi fondi venture capital e startup –

SHARING ECONOMY ACT, È UN BUON INIZIO

di Benedetta Arese Lucini

Mi sono presa un po’ di giorni prima di commentare la proposta di legge sulla sharing economy presentata dal gruppo di parlamentari dell’Intergruppo Innovazione per osservare quello che aveva da dire la community italiana e internazionale. Ci sono state parecchie critiche sia dal mercato tradizionale che da quello delle piattaforme della sharing quindi provo a riassumere quanto ne posso trarre e a esporre le mie osservazioni.

Prima di tutto non si è riconosciuto abbastanza il fatto che ci troviamo a essere precursori in Europa nell’individuare l’importanza di questa nuova struttura economica ma anche culturale, lavorativa e sociale. Infatti, questa proposta di legge italiana che incoraggia la condivisione, in tutte le sue forme, arriva solo dopo quella della Gran Bretagna, dove si è iniziato a novembre del 2014 ad analizzare il fenomeno e nel 2015 a promuoverlo ma senza ancora arrivare a un quadro normativo completo. Quindi in un mercato ancora nascente, è importante riconoscere lo sforzo e la visione necessaria per creare un documento che possa essere di indirizzo verso una regolamentazione efficiente. È importante anche ricordare che la proposta promuove anche una consultazione aperta, quindi incoraggiando un lavoro trasparente, inclusivo e partecipato.

Oltre alla forma, nel testo della proposta di legge si nota un’importante definizione delle piattaforme di sharing che specifica: “Tra gestori e utenti non sussiste alcun rapporto di lavoro subordinato”. Ovviamente questa ritengo sia la chiave di lettura essenziale per capire e regolamentare un mercato crescente di lavoro on demand. Infatti per l’efficiente funzionamento e sviluppo delle piattaforme è necessario non avere nessun rapporto esclusivo o subordinato tra piattaforma e lavoratore. In questo modo il lavoratore è indipendente nello scegliere l’offerta per lui più competitiva e il gestore non deve e non può imporre nessun vincolo al lavoro sulla propria piattaforma. Inoltre leggendo tra le righe è chiaro che se da un lato la proposta di legge lavora con attenzione sulle implicazioni fiscali di queste nuove forme di reddito, dall’altra cerca di creare anche un’agevolazione importante al lavoratore con una tassazione secca al 10 per cento.

Nel merito quindi sono entusiasta di questo sviluppo tutto Italiano, che può servire anche ai nostri vicini europei e all’Unione europea nel costruire legislazioni aperte e favorevoli allo sviluppo del settore. Dall’altra parte argomenterei che per il reale successo di una regolamentazione della sharing economy ci vuole maggior coraggio nel promuovere queste piattaforme, esigendo una rimozione di barriere burocratiche e legislative a livello nazionale, invece che rimandare a comuni, regioni e province il compito di modificare le proprie norme di competenza. Questo eviterebbe una lunghissima transizione e sicuramente un disparità nei diversi regolamenti locali.

Se possiamo mutuare un principio dal processo della Gran Bretagna, è quello di pensare a legislazioni che rimuovono le barriere e facilitano la condivisione di beni, incoraggiando le persone a usufruire sempre di più di queste piattaforme. Monitorare lo sviluppo del mercato prima di porre dei limiti attraverso la regolamentazione aiuterebbe lo sviluppo della sharing economy e darebbe un reale diritto a innovare alle piattaforme locali e straniere che ne fanno parte.

Infatti se posso criticare un elemento di questo documento, mi sembrano tanti gli oneri imposti sulle piattaforme stesse, come quello del sostituto d’imposta e quello del doversi registrare presso un registro nazionale gestito dalla AGCM (l’Autorità garante della concorrenza), che richiede un documento di polizza aziendale, ma soprattutto l’obbligo di una assicurazione il cui costo deve essere sostenuto dalla piattaforma. Tali requisiti possono creare barriere per chi vuole operare in Italia anche se il capitale, solitamente, non manca a queste piattaforme e ciò rende più possibile sostenere i costi d’entrata. Questi stessi oneri possono essere davvero dannosi, invece, per quelle piattaforme della sharing economy nate in Italia che vogliono competere sul territorio. Con già un alto rischio di impresa, sostenere costi aggiuntivi e ritardi dati dalla regolamentazione e registrazione può essere un forte deterrente nel cominciare a sviluppare una impresa di sharing. Il mercato cosi non si aprirebbe a una concorrenza florida che è essenziale per la crescita di questa economia.

Il mio unico suggerimento quindi è di ripensare la proposta di legge spostando la registrazione e l’obbligo di trasparenza, oltre che gli oneri fiscali, sul lavoratore stesso. In questo modo, se esiste un registro nazionale per il lavoratori on demand della sharing economy, è estremamente semplice sia per il fisco che per il governo stesso implementare regole ed agevolazioni ad hoc per questi lavoratori. Dato che la vera questione per i consumatori è una più alta attenzione alla sicurezza, il registro dei lavoratori deve diventare l’unico requisito per partecipare alle piattaforme di sharing, rendendo la selezione molto semplice. Il governo stesso deciderà i requisiti per questi lavoratori, lasciandoli verificare da un ente nazionale terzo a cui verrà assegnata la gestione del registro. Le piattaforme a questo punto dovranno solamente segnalare un lavoratore on demand che non rispetta il regolamento imposto dal registro, e questo verrà pubblicato sulla documentazione del lavoratore. In questo modo si garantisce la sicurezza e trasparenza ai consumatori perché un lavoratore che viene segnalato da una piattaforma e rimosso per comportamenti scorretti o pericolosi, non potrà accedere a nessun’altra piattaforma di sharing, finché non verrà reinserito nel registro.

Nel complesso, comunque, una proposta di legge che guardi a favorire la concorrenza, salvaguardare l’interesse dei consumatori e creare nuove opportunità di reddito per i lavoratori è sicuramente da incoraggiare. Così anche la sharing economy potrà fare la sua parte in un paese come l’Italia, ancora oggi alle prese con disoccupazione ed evasione fiscale, attraverso soluzioni nuove e innovative.

Twitter @dettaarese