Gli stress test e la realtà del mercato

scritto da il 26 Luglio 2016

Mancano ormai pochi giorni alla diffusione dei risultati dello stress test che l’EBA – Autorità Bancaria Europea – sta conducendo su 53 banche appartenenti ai Paesi dell’Unione Europea, quelle con un attivo superiore ai 30 miliardi di euro. Le novità di questo ultimo stress test, oltre a riguardare il numero delle banche coinvolte (che rispetto al 2014 sono solo una parte delle banche sottoposte alla vigilanza della BCE), sono anche di natura operativa e si riferiscono a tre nuove tipologie di rischio prese in considerazione: il cosiddetto “conduct risk”, il rischio che comportamenti negligenti o fraudolenti determinino sanzioni e ulteriori costi per l’istituto; il rischio valutario, riferito al modo con il quale l’oscillazione delle valute va ad impattare sulla qualità del credito in valuta estera, facendo particolare attenzione agli impieghi sui mercati emergenti; e il rischio tassi d’interesse, legato a come un prolungato periodo di tassi d’interesse nulli o negativi può condizionare la redditività della banca. Inoltre, nella lista dei risultati dello stress test non verrà più indicato se una banca ha fallito o superato il test, ma verranno riportati esclusivamente i livelli di solvibilità ottenuti sotto i vari scenari, demandando alla BCE (e al processo di supervisione SREP) la decisione sul se e come alcune banche debbano procedere ad aumentare il proprio capitale.

L’esercizio di stress che verrà condotto però, pur prevedendo una situazione di adverse scenario molto più ampia e severa rispetto a quella ipotizzata nel 2014, sarà basato anche questa volta su come le varie ipotesi di stress vanno ad impattare sull’attivo ponderato per il rischio (Risk Weighted Assets – RWA). Tale elemento ha dato luogo in passato a varie critiche sull’effettiva affidabilità di questi esercizi. Anche recentemente non si è fatta attendere la stessa tipologia di critiche, in relazione a come questi test non prevedano distinzioni sulla base del tipo di attività bancaria svolta, sulla diversa ponderazione degli attivi in base ai quali è calcolato il patrimonio di vigilanza.

Giova infatti ricordare che i coefficienti patrimoniali stabiliti dall’organo di vigilanza, essendo appunto dei coefficienti, hanno al numeratore la misura del patrimonio considerato (di classe 1 o 2) ed al denominatore la misura dell’attivo ponderato per il rischio (dato dal valore delle varie voci dell’attivo moltiplicate per un coefficiente di ponderazione che ne dovrebbe riflettere il diverso livello di rischio). Può quindi accadere che tali coefficienti patrimoniali si vengano a modificare in modo sostanziale, non solo per interventi sul capitale (variazioni degli utili capitalizzati, aumenti o rettifiche del capitale), ma anche in funzione del diverso livello di “rischiosità” dell’attivo. La misura della rischiosità dell’attivo diventa così, al pari dell’effettiva dotazione di patrimonio, un elemento fondamentale per valutare la presunta solidità patrimoniale di una banca. Avere un attivo ponderato per il rischio più basso permette, a parità di capitale, di ottenere dei requisiti patrimoniali migliori.

Le varie normative di Basilea hanno affrontato il problema cercando di calibrare le linee guida alla ponderazione del rischio in funzione delle specificità proprie di ogni banca affiancando appunto all’approccio standardizzato (basato su valutazioni delle agenzie di rating e valutazioni di mercato) quello interno (Internal Rating Based – IRB). Come però hanno dimostrato alcuni studi, l’ampliarsi dell’utilizzo di meccanismi di valutazione interna del rischio ha coinciso con una diminuzione del rapporto tra attivo ponderato per il rischio e totale dell’attivo (chiamato densità di RWA). Come a dire che lasciando spazio alle singole banche di valutarsi al proprio interno i rischi questi si siano poi ridotti, ed è probabile che tale riduzione sia più dovuta al favorevole meccanismo di valutazione che non all’effettiva minore rischiosità dell’attivo.

Se andiamo ad osservare il livello di densità di RWA delle principali banche europee, si notano differenze estremamente rilevanti. Si va dal Banco di Bilbao che ha un RWA poco più della metà del totale dell’attivo alla SwedBank che invece registra un RWA inferiore al 20% dell’attivo (grafico 1):

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Grafico 1. Densità di RWA. Fonte dati: SNL Financial

Se mettiamo poi in relazione i livelli di patrimonializzazione, espressi dal coefficiente CET1 ratio, al livello di densità di RWA, si nota una relazione con un buon grado di significatività (grafico 2), segno che il livello di “rischiosità” dell’attivo influenza la capacità della banca di raggiungere coefficienti patrimoniali più elevati:

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Grafico 2. Densità di RWA e CET1. Fonte dati: SNL Financial

È quindi di estrema importanza stabilire quanto effettivamente sia rischioso un determinato asset perché anche da esso deriva l’effettiva capacità della banca di reggere prove di stress. Valutazioni troppo morbide potrebbero in tal senso fornire una falsa percezione di forza della banca. Si pensi ai casi Dexia e Bankia del 2011, che risultate ampiamente patrimonializzate secondo lo stress test condotto dall’EBA, dovettero poi ricorrere al salvataggio pubblico solo pochi mesi dopo. In questo senso le stesse norme di Basilea si sono mosse, e si muoveranno con la prossima versione IV, verso una maggiore attenzione al leverage ratio (che considera al denominatore il totale dell’attivo piuttosto che il RWA) e alla densità di RWA, parametri per i quali saranno probabilmente fissati dei livelli minimi al di sotto dei quali non è possibile scendere.

Per il momento però, l’esercizio condotto dall’EBA non prevede particolari soglie di densità di RWA da rispettare ed i modelli di valutazione del rischio utilizzati per la prova di stress saranno proprio quelli delle banche e non quelli dell’autorità.

Per ovviare alla discrezionalità implicita nei modelli IRB di valutazione del rischio dell’attivo il V-Lab della New York Stern University, guidato del premio Nobel professor Robert Engle, propone di utilizzare degli indicatori di mercato, piuttosto che contabili, per valutare la capacità di una determinata banca di resistere in una situazione di rischio sistemico. Il più importante di questi indicatori, chiamato SRISK (Systemic Risk), misura l’ammontare aggiuntivo di capitale di cui una certa istituzione finanziaria avrebbe bisogno per mantenere un normale indice di solvibilità (stimato dal V-Lab al 5,5% dell’attivo) in situazioni di cosiddetto rischio sistemico (definito come un calo dell’indice di borsa del 40% nell’arco di 6 mesi).

Gli studi di Brownlees e Engle (2011) e di Acharya, Engle e Richardson (2012) condotti sugli USA, hanno evidenziato come l’utilizzo di questa misura di deficit di capitale in situazioni di stress di mercato poteva esser in grado di individuare, durante la crisi finanziaria del 2007-2008, le istituzioni finanziarie maggiormente a rischio, fornire una stima sufficientemente accurato del loro deficit di capitale e rappresentare uno strumento di early warning per il deteriorarsi dello stato di salute dell’economia reale.

La pagina web del V-Lab fornisce periodicamente il livello di SRISK per tutte le istituzioni finanziarie quotate del mondo. Nel Grafico 3 sono rappresentanti i livelli complessivi di deficit di capitale che ogni sistema finanziario nazionale potrebbe dover affrontare al presentarsi di una nuova crisi sistemica:

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Grafico 3. SRISK per Nazioni. Fonte dati: V-Lab New York University Leonard N. Stern School of Business

Secondo tale misura, all’interno della zona euro, il sistema finanziario francese è di gran lunga quello più a rischio. Interessante notare come le prime due banche francesi, BNP Paribas e Crédit Agricole, registrano insieme un SRISK abbondantemente superiore rispetto alla totalità del sistema finanziario italiano. Il sistema finanziario Giapponese e Cinese rimangono invece quelli più fragili a livello globale, con deficit di capitale che superano in entrambi i casi i 600 miliardi di dollari.

Come si può facilmente notare, la differenza tra il deficit di capitale fornito dal SRISK e quello che è emerso nei vari scenari avversi degli stress test è estremamente ampio. Nel 2014 Acharya, Engle e Pierret hanno confrontato i risultati dello stress test EBA in relazione al SRISK delle banche sottoposte al controllo ed hanno ricavato che sebbene il SRISK sia direttamente correlato rispetto alle perdite di portafoglio creditizio e di negoziazione emerse nello scenario avverso, non è risultato poi correlato rispetto al deficit di capitale emerso. Tale circostanza ha portato ad ipotizzare che la definizione del capitale di vigilanza, la discrezionalità concessa nell’attribuzione dei pesi per il rischio nella stima del RWA e la mancata valutazione del rischio sistemico (rischio di contagio finanziario tra istituzioni, rischio di trasmissione all’economia reale) abbiano evitato che le rilevanti perdite registrate sulle poste dell’attivo si trasferissero in corrispondenti deficit di capitale. La valutazione del deficit di capitale attraverso il SRISK invece, essendo essenzialmente ricavata da valori di mercato, perché è alle valutazioni di mercato che ci si deve riferire per ottenere nuovo capitale, è molto meno discrezionale e per tale ragione dovrebbe esser considerata più affidabile.

Anche la stima del SRISK non è però esente da imperfezioni e punti di debolezza. Essa non fornisce indicazione qualitativa e quantitativa delle aree di debolezza dell’attivo, è inoltre eccessivamente dipendente dal grado di leverage e rappresenta una stima estremamente volatile e prociclica, dipendente appunto dalle condizioni di mercato. In momenti di tranquillità o euforia può fornire un eccessivo grado di sicurezza, viceversa, in situazioni di mercato già stressato, può fornire misure amplificate dell’effettiva debolezza della singola banca.

In definitiva, adesso che ci avviciniamo alla diffusione dei risultati del prossimo stress test, con la probabile coda di polemiche e rimpalli che ne deriverà, giova ricordare che si tratta ancora di esercizi estremamente imperfetti. È probabile che, come avvenuto le volte scorse, i risultati ottenuti vengano in breve tempo messi alla prova dalla realtà del mercato e non è detto che siano in tal senso confermati. Nel 2012 Claudio Borio, capo del dipartimento monetario ed economico della Banca dei Regolamenti Internazionali, sottolineava come, a parte tutti i vari perfezionamenti di scenario di stress che è possibile porre in essere, questo tipo di esercizi possono migliorare le loro performance, e quindi la qualità dei risultati, solo attraverso un cambio di mentalità: “Nessuno stress test può avere successo a meno che non ci sia la volontà di stressare il sistema duramente e di diffidare dai risultati rosei”. Il rischio, però, nel quale si potrebbe incorrere con un simile cambio di mentalità è relativo al fatto di come risultati particolarmente negativi possano costituire delle profezie auto-avveranti. Per tale ragione si è preferito fino ad oggi muoversi su un piano di particolare cautela, proprio per gli effetti che questi risultati hanno sulla fiducia all’interno del sistema finanziario.

La parzialità e l’imperfezione di questi strumenti è destinata pertanto a non essere risolta nel breve termine e tutti, sia le banche, che il mercato, che le istituzioni economiche e politiche nazionali, dovranno continuare a conviverci. Una convivenza che può essere affrontata seguendo una strada fatta di polemiche, rimpalli di responsabilità, accuse sull’essere stati penalizzati in caso di risultati negativi o, viceversa, con proclami di indubbia solidità se i risultati dovessero essere positivi, oppure una strada fatta di analisi dei risultati al netto delle imperfezioni per migliorare l’attività bancaria e renderla comunque più solida.

Twitter @francelenzi