Cosa significa “welfare aziendale”? Un tentativo di mappatura concettuale

scritto da il 09 Marzo 2017

Pubblichiamo un post di Emmanuele Massagli e Silvia Spattini, presidente e direttore di ADAPT

La legge di bilancio per il 2017 è intervenuta nuovamente sulla detassazione delle prestazioni erogate dai datori di lavoro nell’ambito dei c.d. piani di welfare aziendale. È il terzo intervento legislativo in meno di due anni. Già di per sé una prova della creazione di vero e proprio nuovo “mercato”, la cui esistenza è suffragata anche dalla moltiplicazione dei piani attivi (in un solo anno sono stati 4.100 gli accordi c.d. di produttività che hanno previsto l’erogazione del premio in welfare) e dalla recentissima nascita della prima associazione di categoria (AIWA, Associazione Italiana Welfare Aziendale).

Se è evidente la direzione politica e legislativa di sostegno al welfare aziendale intrapresa negli ultimi anni, è certamente fattore di confusione la scarsa chiarezza definitoria che accompagna questi interventi, tanto in ambito normativo quanto nella comunicazione massmediatica. Tra gli operatori si parla indifferentemente di welfare contrattuale e negoziale, di welfare locale e territoriale, di welfare aziendale e occupazionale, senza una chiara delimitazione dei perimetri.

Obiettivo di questo breve contributo è quello di fornire chiarezza rispetto a concetti ed istituti tra loro profondamente distinti.

Innanzitutto, con il termine welfare si identifica in generale l’insieme delle prestazioni in natura e dei benefici monetari volti a rispondere a bisogni di base legati alla famiglia, all’infanzia, all’abitazione e a tutelare i cittadini dall’indigenza e dai rischi derivanti dall’assenza di reddito in caso di malattia, maternità, infortunio, invalidità, disoccupazione, vecchiaia. Rientrano inoltre in questa definizione anche le prestazioni che riguardano altri ambiti di particolare rilevanza sociale, come l’istruzione e la sanità.

Per rappresentare le diverse tipologie di welfare che si differenziano in funzione delle fonti costitutive della prestazione o del beneficio ovvero in base ai soggetti finanziatori, erogatori o promotori, questa parola viene variamente aggettivata.

Accanto al welfare pubblico sono emerse negli ultimi anni forme di welfare sussidiario alla quale possono essere ricondotte tutte le tipologie di welfare con funzioni integrative o in taluni casi anche alternative o parzialmente sostitutive del primo welfare (pubblico e statale). Pertanto, esso comprende non solo il welfare finanziato da risorse private (sussidiarietà orizzontale), ma anche il welfare (pubblico) locale, definito come welfare erogato degli enti locali (sussidiarietà verticale).

Rientra nella categoria del welfare sussidiario, senza tuttavia esaurirla, il secondo welfare, in tal modo denominato per distinguerlo dal primo, appunto quello pubblico e statale. Si tratta di una definizione abbastanza recente, coniata nel 2010, che, per quanto non abbia ancora trovato un definitivo assestamento, si è in questi anni affermata non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche sui media grazie al lavoro di approfondimento del gruppo di ricerca che si è denominato proprio “Secondo Welfare”. L’aggettivo secondo connota tanto una dimensione “temporale”, essendo successivo al primo welfare, quanto “funzionale”, poiché si considera integrativo dello stesso.

In questo senso, il concetto di secondo welfare potrebbe coincidere con la categoria del welfare sussidiario. Tuttavia, benché la definizione di secondo welfare appaia un po’ sfumata (e aperta, a detta degli stessi fautori della definizione), esso viene rappresentato come un ampio insieme di misure e interventi a finanziamento non pubblico, che possono essere erogati da una molteplicità di attori privati del mondo profit e del non profit o dell’associazionismo (aziende, sindacati, associazioni datoriali, enti bilaterali, imprese sociali, assicurazioni, fondazioni bancarie, terzo settore e volontariato). In sostanza, il secondo welfare corrisponde al welfare sussidiario orizzontale, escludendo il welfare sussidiario verticale, ossia il welfare pubblico locale.

Mappa concettuale

Afferiscono al welfare sussidiario e al secondo welfare una serie di categorie (contrattuale/negoziale, bilaterale, aziendale), le cui definizioni sono solo apparentemente pacifiche.

Tecnicamente, il welfare contrattuale dovrebbe essere identificato con il welfare che trae origine da un contratto, sia esso individuale o collettivo (nazionale, territoriale o aziendale). Tuttavia, nella prassi, poiché l’azione sindacale riguarda principalmente la collettività dei lavoratori, con tale espressione si identifica primariamente l’insieme delle prestazioni la cui fonte è la contrattazione collettiva a diverso livello, piuttosto che il contratto individuale. In tal senso, viene utilizzato come sinonimo di welfare contrattuale l’espressione welfare negoziale. Nonostante tali definizioni siano ampiamente diffuse e impiegate nella prassi, generano non pochi equivoci interpretativi. Per evitarli, potrebbe essere utile distinguere le espressioni welfare contrattuale individuale e welfare contrattuale collettivo.

Nell’ambito della definizione comune di welfare contrattuale rientra anche il welfare bilaterale, in quanto welfare sviluppato dalla contrattazione collettiva a qualsiasi livello. La sua specificità non si esaurisce nella fonte contrattuale, ma si caratterizza per la costruzione di un sistema strutturato di enti e fondi bilaterali che erogano i servizi e le prestazioni negoziati.

Nella definizione di welfare contrattuale rientra anche il welfare territoriale. Tale espressione viene utilizzata impropriamente, come sinonimo di welfare locale, inteso come l’insieme di servizi e benefici erogati dagli enti locali, incluse le Regioni (benché tecnicamente non definibili come tali). Tuttavia, pare più appropriato riferire quella locuzione al welfare la cui fonte sia la contrattazione tra le parti sociali a livello territoriale (da distinguere dalla contrattazione sociale territoriale, attraverso la quale i sindacati si confrontano e negoziano con gli enti locali per garantire un certo livello di servizi ai cittadini).

Tradizionalmente, si distingueva dal welfare contrattuale il welfare aziendale, considerato come un insieme di servizi e prestazioni erogati ai lavoratori per iniziativa unilaterale e volontaria del datore di lavoro, senza nessun tipo di negoziazione od accordo con le rappresentanze dei lavoratori. Normativamente e concettualmente il welfare aziendale è sempre stato interpretato come l’evoluzione del c.d. welfare di fabbrica (o welfare di impresa), l’insieme delle misure di natura sociale messe in campo dall’imprenditore paternalista, tipico della prima crescita dell’industria italiana. Precisato che non esiste una definizione legale di welfare aziendale, è importante osservare che la legge di stabilità 2016 ha superato l’identificazione del welfare aziendale con i caratteri dell’unilateralità e della volontarietà, ribaltando tecnicamente e culturalmente la precedente impostazione.

Infatti, la disciplina previgente escludeva dal reddito da lavoro dipendente opere e servizi di welfare soltanto se erogati su iniziativa volontaria e unilaterale dal datore di lavoro. Ora, invece, le disposizioni in materia fiscale non solo permettono l’esclusione dal reddito da lavoro anche del contenuto dei piani di welfare contrattati, ma ne prevedono la piena deducibilità dal reddito di imprese soltanto se non sono unilaterali e volontari (esattamente il contrario dello scenario previgente), mentre nel caso di “volontà unilaterale” la deducibilità è limitata, come in precedenza, al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente.

Pertanto, richiamando tale normativa fiscale, è ora più corretto parlare di welfare aziendale volontario, unilateralmente concesso dal datore di lavoro senza alcuna costrizione di natura legale, contrattuale o regolamentare, e di welfare aziendale obbligatorio, ovvero obbligato da una pattuizione sindacale o da un regolamento unilaterale. Nel caso di welfare aziendale obbligatorio originato da un accordo sindacale, si può, allora, parlare di welfare aziendale contrattuale.

Una locuzione del tutto nuova nel panorama delle definizioni del welfare è il welfare di produttività. Essa è legata alle novità normative introdotte dalla legge di Stabilità per il 2016, con riferimento alla detassazione ed esenzione dei premi di risultato, e descrive non tanto una tipologia di welfare, quanto piuttosto una modalità di erogazione dei premi di risultato o degli utili: identifica quindi le prestazioni e i servizi ottenuti dai lavoratori in sostituzione (totale o parziale, a discrezione del dipendente) dei premi di risultato o degli utili; concetto espresso anche come “welfarizzazione” del premio di produttività.

Questa prima ricognizione dedicata alla ricerca di qualche certezza definitoria conferma una mancanza di univocità nell’utilizzo delle definizioni delle diverse tipologie di welfare, probabilmente sintomo di una ricerca non ancora sufficientemente sviluppata, polverizzata tra diverse discipline e incapace di uno sguardo unitario. Per questo c’è da augurarsi che l’affinamento degli studi su queste tematiche permetta di giungere a denominazioni condivise, anche in discipline diverse.

Pare necessaria, quindi, una attenta riflessione al fine di un assestamento definitorio in particolare nella prospettiva della ricerca di un nuovo modello integrato di welfare che tuteli i rischi tradizionali e consideri i nuovi e futuri rischi sociali, derivanti dalla c.d. grande trasformazione del lavoro in atto.

Twitter @EMassagli @SilviaSpattini