Uber e taxi o la logica del “peggio la toppa del buco”

scritto da il 08 Aprile 2017

La recente sentenza del tribunale di Roma che ha inibito l’attività di Uber anche per quanto riguarda la sua attività di NCC, cioè Uber Black, rientra nell’ormai pluriennale lotta legale fra la società californiana e le autorità regolatorie dei vari paesi in cui opera.

Per inquadrare meglio la questione vale la pena sottolineare che Uber, per quotazione, dotazione di capitali datigli in prestito e filosofia, sottintende esplicitamente una forte estrazione di valore da un mercato di per sé a basso valore aggiunto attraverso da un lato l’utilizzo di forza lavoro a basso costo e poco specializzata, dall’altro l’applicazione di tariffe variabili che oscillano a seconda della domanda ed offerta relative al periodo ed al tragitto, il tutto condito appunto da una forza finanziaria che gli ha permesso e permette di tagliare le gambe alla concorrenza applicando tariffe sottocosto nei mercati in cui vuole raggiungere una posizione dominante.

Basti pensare appunto alle tariffe astronomiche applicate da Uber Black a Milano, nei giorni del Salone del Mobile, per capire come funziona nella pratica il loro business.

Al contrario il servizio pubblico, in quasi tutte le parti del mondo, obbliga i tassisti ad accettare qualsiasi cliente, ad applicare tariffe prestabilite, indipendentemente dai picchi di domanda, e a rispettare vari standard regolatori, sia di qualità del servizio che di manutenzione dei mezzi, ecc…

In cambio di questi obblighi viene concessa una licenza che pone al riparo dalla concorrenza tramite il “numero chiuso” e da leggi e regolamenti che limitano la possibilità di operare a servizi similari come appunto gli NCC (i noleggi con conducente).

Il risultato di questo limite regolatorio all’offerta ha ovviamente creato valore per tali licenze, anche se in Italia non ha ancora raggiunto i picchi di 1,3 milioni di dollari di una licenza taxi a New York, valore che ultimamente è stato intaccato pesantemente proprio dai servizi di Uber e di altre compagnie come Lyft.

La soluzione non è semplice, perché fra la completa liberalizzazione, dove si correrebbe il rischio di creare posizioni dominanti e cartelli, e la limitazione legislativa che crea valore artificialmente limitando l’offerta, bisogna trovare un equilibrio che garantisca sia l’utente finale, sia gli autisti, sia l’esistenza di un adeguato servizio di trasporto individuale complementare a quello collettivo.

Le finzioni giuridiche che attualmente distinguono fra taxi e NCC per esempio, e su cui si basa la sentenza del Tribunale di Roma, sono battaglie di retroguardia che sicuramente non potranno che cristallizzare la situazione ancora per un altro po’ di tempo, ma certo non risolverla. Molto meglio sarebbe una liberalizzazione completa delle licenze e impegnare lo zelo regolatorio nei termini del servizio propri del servizio pubblico cioè la qualità del servizio stesso, la sua accessibilità anche in zone disagiate o “rischiose”, l’obbligatorietà di accettare anche pagamenti elettronici, eccetera.

In compensazione alle diseconomie derivanti dalle regole si potrebbe pensare di vietare il cumulo delle licenze oltre un certo numero per evitare la creazione di compagnie come quelle appunto di New York dove alla fine i costi regolatori vengono riversati sull’autista, con risultati non propriamente efficienti.

Quella che invece sicuramente non è una soluzione è permettere ad un monopolio-cartello privato di sostituirsi ad monopolio-cartello di origine regolatoria. Sarebbe, come si dice, “peso il tacon del buso”. Ovvero, peggio la toppa del buco.

Twitter @AleGuerani