Colpa dei bamboccioni o della classe dirigente se si assumono pochi giovani?

scritto da il 06 Maggio 2017

La recente pubblicazione delle statistiche sulle percentuali di laureati dei Paesi europei offre l’occasione per mettere a sistema un po’ di dati sulla situazione dei giovani italiani. Molti numeri che seguiranno non sono nuovi all’opinione pubblica, anzi sono ampiamente conosciuti, almeno a livello disaggregato. Ma è la loro combinazione, oltre al confronto degli stessi con quelli dei nostri “vicini di casa”, ad incupire un quadro già di per sé buio, in cui su condizioni e prospettive dei venti-trentenni italiani pesa un’anomalia di sistema dalle vaste responsabilità.

Diamo i numeri…

Per comporre questo quadro, partiamo proprio dal dato di più “fresca” diffusione. Come si può vedere dal grafico sottostante, l’Italia vanta, se si può dir così, la seconda peggiore percentuale di persone tra i 30 e i 34 anni in possesso di una laurea (il 26%; solo la Romania ha una quota minore).

grafico1degidioFonte: Eurostat

In questa fascia di età si trovano oggi i giovani che hanno verosimilmente terminato gli studi universitari tra 5 e 10 anni fa (senza contare gli immatricolati tardivi e i laureati fuoricorso, che certo non sono pochi ma di cui si tralascia una stima). Cioè sono i giovani che hanno iniziato l’università prima che la crisi economica scoppiasse, ovvero che non avevano ancora ragione di essere scoraggiati più di quanto non avessero motivo di esserlo a causa di un’Italia stagnante com’era quella dei primi anni Duemila.

Che tale percentuale, riferita al 2016, sia comunque la più alta degli ultimi anni per il nostro Paese potrebbe essere dovuto proprio al fatto che si tratta di un dato sostanzialmente “pre-crisi”. Se per il futuro non è possibile fare previsioni attendibili, è comunque più che lecito dubitare che il numero di giovani laureati possa crescere significativamente nel corso dei prossimi dieci anni.

Guardiamo un’altra statistica, che come e più della precedente getta ombre inquietanti: quella sui cosiddetti NEET (persone che non lavorano, né studiano, né in alcun modo si formano).

grafico2degidioFonte: Eurostat

Nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni, l’Italia è in assoluto la peggiore a livello europeo per numero di ragazzi NEET, sfiorando una percentuale del 20%. Questo dato è ben noto in Italia. Ma confrontato con quelli dei nostri competitor europei, è ancor più preoccupante. Si tratta proprio dei giovani che dovrebbero finire gli studi superiori e/o studiare all’Università. E’ vero che nella grande famiglia dei NEET non si riesce a distinguere le diverse componenti (tra chi non lavora pur avendo studiato e chi proprio non fa o non ha mai fatto nulla); tuttavia non si può fare a meno di pensare che questo dato si rifletterà, in qualche modo, anche nelle statistiche del futuro sui giovani laureati.

Ma non è finita qui. Limitandosi a guardare i dati finora citati, qualcuno potrebbe pensare che se la disoccupazione giovanile è così elevata, è perché troppi ragazzi sono poco o per nulla qualificati. In parte sarà anche così, ma in parte no. La prossima tabella mostra la percentuale di persone tra i 20 e i 34 anni (un’ampia fascia quindi), in possesso di diploma o laurea da non più di 3 anni, che si trovano nella fortunata condizione di occupati. In altri termini, è un indicatore dell’ “assorbimento” a breve termine dei giovani in possesso di formazione superiore o universitaria, da parte del mondo del lavoro.

grafico3degidioFonte: Eurostat

Inutile dire che l’Italia è ancora penultima, seguita solo dalla Grecia, con la Spagna che la sorpassa di circa 15 punti percentuali. Delle tre statistiche, questa è la più preoccupante, in quanto dimostra che nei primi tre anni dal conseguimento del titolo di studio (purtroppo Eurostat non distingue tra diplomati e laureati), l’Italia non riesce a valorizzare lavorativamente il proprio capitale umano. Beninteso: il tasso di occupazione non è indicativo come quello di disoccupazione, ma il confronto con gli altri Paesi lo è, eccome. O siamo troppo “teorici” (quindi proseguiamo gli studi o la formazione, ma il dato sui NEET non sembra suggerirlo), oppure “Roma, abbiamo un problema”.

Per concludere (amaramente), vediamo l’ultima statistica, questa tutta italiana. La “XVIII Indagine sulla condizione occupazionale dei laureati” del Consorzio Interuniversitario Almalaurea mostra, tra i tantissimi dati, la seguente tabella:

grafico4degidioFonte: Consorzio Almalaurea

Qui si vede come i laureati magistrali del 2010 (molti dei quali rientreranno nel 26% di laureati 30-34enni oggi), a cinque anni dalla laurea sono disoccupati al 12,8%. Che non è tanto, ma non è neanche poco, dal momento che è comunque superiore al tasso di disoccupazione nazionale generale, attestatosi all’11,9 nel 2015. Cinque anni non sono “l’indomani della laurea”, semmai il “dopodomani”, o anche di più.

E’ una riprova del fatto che la pergamena, oggi, è un investimento che vale la pena fare (soprattutto in certe materie), ma i cui frutti in termini di occupazione si manifestano soltanto a medio-lungo termine. E non è neppure vero che “sforniamo” pochi ingegneri: chi vuole rielaborare le rilevazioni del MIUR (in questa pagina) scoprirà che negli ultimi anni il gruppo delle lauree ingegneristiche, dopo quelle economiche, è stabilmente quello che produce più dottori, con percentuali tra il 12% e il 13% (circa 35mila laureati l’anno).

Veniamo alle conclusioni (finalmente)…

Il quadro a tinte fosche è compiuto; potrebbe intitolarsi “La scoperta dell’Italia”, invece che dell’America. Il nostro Paese è un cane che si strapazza la coda, non si limita solo a morderla. Da una parte si studia poco (meno che negli altri Paesi europei), ma dall’altra, le statistiche confermano l’incapacità strutturale di integrare le forze più fresche e qualificate, da parte del sistema industriale e produttivo. Da dove cominciamo ad aggredire il problema?

Dei giovani si è detto già molto, da “bamboccioni” a “choosy”, tranne una cosa importante: che non sono classe dirigente, quindi non hanno né gli strumenti né i luoghi per ragionare in un’ottica di sistema; né – diciamolo – sono tenuti a farlo. Anche della classe dirigente si è detto molto (sempre meno che dei giovani), tranne una cosa: che gli strumenti e i luoghi per ragionare in un’ottica di sistema ce li avrebbe. Per questo forse conviene partire dal lato dell’offerta di lavoro, con una spietata analisi del perché, anche quando un buon capitale umano di venti-trentenni c’è, esso viene sottoutilizzato se non del tutto snobbato. Pochi laureati e troppi NEET sono un problema, ma non possono essere un alibi per chi assume.

Twitter @madegidio