Garanzia Giovani, l’ineffabile Anpal e la clamorosa performance che non lo era

scritto da il 13 Giugno 2017

Qualche settimana fa una notizia pubblicata sul sito dell’Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) ha un po’ attirato la mia attenzione. Trattasi di una notizia riguardante un confronto europeo a tre anni dall’introduzione del progetto Youth Guarantee Scheme, tradotto nell’italiana Garanzia Giovani, che  nel comunicato stampa afferma che «Con riferimento ad una comparazione tra le annualità 2014 e 2015, in Italia la percentuale di giovani che si trova in una situazione “positiva” a sei mesi dall’uscita dalla condizione di NEET grazie a Garanzia Giovani, è del 70%». Leggendo poi la nota, si scopre che «Questo dato, che emerge dal “Data collection for monitoring of Youth Guarantee schemes: 2015” della DG EMPL pubblicato lo scorso Febbraio 2017, è sensibilmente superiore a quello della media europea che si attesta, invece, attorno al 45%».

Leggendo il comunicato stampa e la nota, mi ha sorpreso la clamorosa performance italiana rispetto ai partner europei. Forse un po’ troppo clamorosa. Ma vediamo cosa dice il report citato.

Questo è il grafico richiamato dalla nota ANPAL

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Dallo stesso si evincerebbe un’ottima performance dell’Italia, ben al di sopra della media europea. Ma c’è un’altra figura importante, ed è la seguente.

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Come si vede nella figura 17 – che verifica le percentuali di posizioni positive di chi è uscito dal programma a 6, 12 e 18 mesi dal termine dello stesso – la performance italiana, ottima dopo i 6 mesi dall’uscita, si abbassa notevolmente dopo i 12 e i 18 mesi, finendo al di sotto della media europea. Si tratta della riduzione più significativa, mentre gli altri Paesi (ad eccezione della Spagna) mostrano risultati più o meno costanti nei tre periodi considerati.

Come si spiega quest’anomalia? Secondo il report «The reductions [in Spagna e Italia nda] derive partly from increased numbers in an unknown situation (17-18 percentage points in both cases) and partly from increased numbers that are again unemployed or inactive (14-15 pp), which tends to imply that the outcomes achieved early on are not being sustained. Quite probably, this reflects the fact that the 6 month positive results will include people still participating in the offer that they took up on exit». Quindi, oltre agli sconosciuti, secondo gli autori del report gli straordinari risultati della verifica dopo i 6 mesi risentivano dei numeri di coloro i quali erano ancora beneficiari della misura prevista dal programma. Naturalmente la figura 17 ridimensiona molto la posizione italiana, annullando quell’apparente effetto exploit di cui alla nota Anpal.

Altro richiamo del report nella nota: «Inoltre, tra quanti sono usciti dalla condizione di NEET nel corso del 2015, in Italia circa il 73% dei giovani ha usufruito di un’opportunità lavorativa e/o formativa entro i 4 mesi dalla presa in carico in linea con la Raccomandazione europea sulla Garanzia per i Giovani. Anche questo dato risulta di gran lunga superiore rispetto a quello della media europea che è pari al 46,7%». Giustamente, per inquadrare meglio il concetto di “uscite positive”, la nota richiama altresì una recente relazione della Corte dei Conti Europea (che consiglio di leggere interamente per capire in generale alcuni problemi dell’intero programma) sull’efficacia di Youth Guarantee in sette Paesi, tra cui l’Italia. Si legge nella nota Anpal: «(…) Per quanto riguarda l’Italia, l’incremento delle “uscite positive” (dal 22 % al 68 %) rispetto alle due annualità in esame riflette effettivamente un significativo aumento delle offerte presentate. Tale incremento è dovuto, da un lato, al breve periodo di rilevazione relativo al 2014, utile solo per il secondo semestre dell’anno, dall’altro, al lasso temporale preso in esame dalla Corte dei Conti europea che coincideva, sostanzialmente, con il periodo in cui i giovani risultavano appena registrati al Programma (…) ed in attesa di essere chiamati dai servizi competenti al lavoro per la presa in carico e la proposta della misura di politica attiva (…)».

Ma vediamo se la Corte ha detto altre cose interessanti sul caso italiano con riferimento alle uscite positive: «Alla fine del 2015, la quota di “uscite positive” variava notevolmente da un paese all’altro, oscillando tra il 58 % in Spagna e il 99 % in Italia». Un dato altissimo, dovuto, secondo la Corte, al fatto che «(…) in Italia, il basso numero di “uscite negative” potrebbe essere in parte dovuto al fatto che tutti i partecipanti firmano una dichiarazione di immediata disponibilità ad iniziare una misura». Insomma, la firma della dichiarazione di immediata disponibilità menzionata dalla Corte non sembra tanto essere un’uscita positiva, bensì un necessario step burocratico a cui tutti i registrati devono adempiere.

L’Anpal non ha fornito al lettore le dovute precisazioni in merito agli apparenti migliori risultati italiani rispetto ai partner. L’intento qui non è quello di compiere un mero fact checking (che mi auguro sempre possa essere in qualche modo smentito da una replica), ma concerne una riflessione più profonda. Non mi aspetto risultati miracolosi dalle politiche attive, dalla flexicurity in salsa tricolore, perché le politiche dal lato dell’offerta non creano dal nulla l’occupazione. Ma ritengo le politiche attive importanti, soprattutto per chi resta spiazzato da un mercato del lavoro in continua evoluzione.

Tuttavia, le politiche attive presentano un alto rischio di fallimento, con annesso spreco di risorse pubbliche. Ci sono una serie di note conseguenze negative indirette che le politiche attive possono causare (che meritano un approfondimento separato). Non mi preoccupano eventuali fallimenti, fisiologici, ma la difficoltà nel verificarli e le forzature per nasconderli. I dati e l’interpretazione corretta degli stessi assumono un ruolo essenziale, unico strumento per cercare di capire gli errori e migliorare gli interventi normativi e regolatori. Le risorse non sono poche (ma nemmeno illimitate) e vanno spese in maniera efficace. Inoltre i dati non sono fondamentali solo per il regolatore pubblico, ma anche per il funzionamento di una democrazia, come ha ricordato recentemente Carlo Amenta su queste pagine: «I dati consentono di testare ipotesi, di verificare le nostre convinzioni sulla realtà e anche di sottoporre ad un processo serio di fact checking chi ci governa ed esercita il potere politico (“Eternal vigilance is the price of liberty”, ci ricorda Jefferson)».

L’Anpal è nata con una certa idea dell’assetto costituzionale naufragata a seguito del referendum del 4 dicembre 2016. Adesso vive in una situazione di incertezza, soffrendo di una ripartizione di competenze Stato-Regioni che non agevola la sua mission, ma ciò non significa che non possa avere un ruolo comunque molto importante di coordinamento centrale. Per farlo però, la sua trasparenza e imparzialità non possono mai essere fonte di dubbio.

Twitter @frabruno88