I salvataggi bancari e il sacro denaro dei contribuenti nelle parole di Einaudi

scritto da il 21 Luglio 2017

Ci sono delle analogie interessanti tra alcune difficoltà attuali del nostro sistema bancario e le crisi degli anni Venti, in particolare la crisi ed il crack della Banca Italiana di Sconto (“BIS” nel prosieguo). Già in un post di qualche tempo fa su Econopoly sono state richiamate le critiche dell’economista Piero Sraffa al sistema bancario/industriale dell’epoca , ma nello stesso periodo furono molte anche le riflessioni sulla vicenda di un altro illustre piemontese, il futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi (che, tra l’altro, fu anche relatore di tesi del giovane Sraffa).

La raccolta [1] dei suoi articoli pubblicati in quegli anni tumultuosi, ci consente di ripercorrere il pensiero di Einaudi sulla vicenda della BIS e, in generale, sulla gestione delle crisi bancarie. Un pensiero che sorprende per la sua attualità, anche con riferimento alle vicende nostrane degli ultimi anni e mesi.

Come noto, la BIS chiuse i battenti nel dicembre 1921, dopo soli sette anni dalla sua apertura, ma gli strascichi del suo fallimento si sarebbero trascinati per anni. Dopo averne seguito le vicende che portarono alla chiusura, Einaudi si trovava spesso a commentare le pressioni dei creditori della BIS – i quali cercavano di recuperare le loro somme – ponendo alcune riflessioni agli inizi del ’22,: «(…) i creditori della Sconto hanno diritto soltanto a tutto ciò che la banca possiede, ed inoltre alle somme che gli amministratori potranno essere chiamati a pagare in relazione alle loro eventuali responsabilità. Nulla di meno; ma neanche nulla di più. (…) Da quale fonte invero potrebbero essi ricavare di più? Non dal denaro fresco versato da nuovi azionisti, perché non si troverà, credo, in Italia nessun risparmiatore disposto a regalare i propri risparmi alla Sconto (…) Non da altre banche, che hanno il dovere di non far donazione altrui dei denari dei propri depositanti. Non dalla Banca d’Italia, ossia dal governo, perché il ministro del tesoro non può per nessuna ragione al mondo regalare neppure un centesimo del denaro dei contribuenti». Aggiunse qualche giorno dopo che «(…) essi dimenticano che l’erario si alimenta unicamente con le imposte; e che i contribuenti possono essere chiamati a pagare imposte esclusivamente per fini pubblici, non mai per fini privati».   

I creditori però non ci stavano a passare per i vampiri che succhiavano il sangue dei contribuenti e, tramite il loro consorzio, chiamavano lo Stato alle sue responsabilità per il fallimento della BIS, dovuto in gran parte all’ingente finanziamento di Ansaldo per gli scopi della Grande Guerra, chiedendo la prestazione di una “garanzia effettiva” da parte delle banche di emissione. Ma Einaudi non sembrava molto convinto dell’asserita responsabilità dello Stato per il sostegno alla guerra, poiché «L’uomo politico ebbe, durante la guerra, il dovere di incitare banchieri, industriali e commercianti a venire in aiuto alla patria. Ma era chiaramente inteso che essi dovevano aiutare il paese a loro rischio. Altrimenti, quale sacrificio avrebbero sopportato e quale sarebbe stato il loro merito?».

einaudi

In un altro pezzo, nel 1923, Einaudi – in pieno nervosismo per il caso del Banco di Roma – ribadì alcuni concetti, ancora oggi validi, sui metodi e sul costo dei salvataggi bancari, rincarando la dose dello scontro ed elencando i tre principali metodi per risolvere una crisi bancaria: «1) il fallimento. Fu recentemente, il metodo adottato per la piccola Cassa rurale di Bagnolo. (…) Il fallimento si potrebbe anche chiamare il metodo classico, il solo metodo risanatore a fondo, il quale non lascia tracce fastidiose dopo di sé. (…) Chi ha peccato paga; e chi ha voglia di peccare sa che nessuno gli porgerà la mano per tirarlo in salvamento nell’ora del pericolo. (…) 2) l’intervento di altre banche. (…) Può darsi che altre banche private, in momenti difficili, abbiano interesse a rilevare la posizione ed a garantire in pieno il rimborso dei depositi, lasciando andare a male solo i (…) milioni propri degli azionisti. (…) Nessuna critica può farsi a tale forma di intervento; poiché essa è incerta e subordinata all’interesse delle banche salvatrici e non a quello della banca salvata. (…) 3) purtroppo, tale non fu il metodo di salvataggio usato per la Banca di Sconto e per il Banco di Roma. Il metodo scelto fu il terzo tipico, ossia il salvataggio coi denari dei contribuenti. (…) l’intervento dello stato ha fatto sì che chi ha rotto non ha pagato affatto o non ha pagato se non in piccola parte. Paga un altro, che non c’entrava per niente e cioè il contribuente italiano».

Lo scritto indusse il senatore Ludovico Gavazzi, già amministratore della BIS, a rispondere sulle pagine del Corriere per distinguere le diverse situazioni del Banco di Roma e della BIS, con il primo che – grazie all’intervento di Mussolini – vedeva creditori ed azionisti tranquilli, a differenza di quanto accaduto alla BIS, dove lo Stato non ci avrebbe rimesso un centesimo. Einaudi ribatteva punto per punto: «Che lo stato non debba in definitiva rimettere neppure un centesimo dei denari dei contribuenti, voglio augurarmelo anch’io, insieme col sen. Gavazzi. Sta di fatto però che successivi decreti hanno imposto l’accantonamento di egregie somme di spettanza esclusiva del tesoro, ossia pagate dai contribuenti, che cifre ufficiali hanno constatato in 257 milioni 750.000 lire per il periodo dal 1° luglio 1921 al 31 dicembre 1922, e che si possono calcolare in 230 milioni all’anno per gli otto anni successivi sino al 1930. (…) Per presunzione legale quelle somme si possono considerare perdute. Se in parte verranno recuperate, tanto meglio».

Da queste riflessioni di Einaudi, possiamo estrapolare qualche punto fermo, con valenza attuale (naturalmente con i dovuti distinguo):

  • – una linea dura e inflessibile sull’uso delle risorse pubbliche (pur aprendo a degli interventi, come nel caso delle crisi di mera liquidità), che appariva ancor più dura in considerazione del fatto che il fallimento della BIS aveva comportato un’importante partecipazione dei privati alle perdite, a differenza di altre situazioni di puro salvataggio statale;
  • – una critica verso approcci particolaristi, che cercano di giustificare l’esborso pubblico (come la presunta responsabilità politica dello Stato per le pressioni in tempo di guerra);
  • – una rigorosità nei calcoli del costo per il contribuente, che non si limita agli esborsi diretti da parte dell’erario, ma che ricomprende le garanzie prestate dalle banche di emissione;
  • – uno sguardo favorevole alle ipotesi di salvataggi compiuti da altre banche, ma solo se economicamente convenienti a quest’ultime, senza condizionamenti politici.

Ma possibile che Einaudi non pensasse alla salvaguardia dei piccoli risparmiatori? Sì, ci pensava, ma manteneva un atteggiamento duro anche nei confronti della cosiddetta tutela del risparmiatore e della protezione dello stesso attraverso la sorveglianza pubblica. Così scriveva in un pezzo del 1913: «La miglior tutela deve essere la prudenza e la oculatezza del risparmiatore; e queste qualità non sono in alcun modo sostituibili dalla prudenza e dalla oculatezza di sorveglianti governativi. (…) Siffatto affidamento (nei confronti della sorveglianza pubblica, Nda), qualora si radicasse nella mente dei risparmiatori: 1) implicherebbe una responsabilità, almeno morale, dello stato nelle eventuali perdite; 2) indurrebbe i risparmiatori a non esercitare essi quella prudenza che sola è massimamente efficace; 3) confonderebbe gli istituti buoni coi cattivi, tutti egualmente sorvegliati, e darebbe modo ai poco onesti di accaparrare i risparmi degli ignari, mettendosi quasi sotto l’egida della tutela dello stato».

Il punto sostanziale non risiede nella mera critica alla sorveglianza bancaria – che ha di certo una sua riconosciuta utilità – ma nei concetti di responsabilità individuale e di moral hazard, ben chiari nel pensiero di Einaudi. E fa riflettere la durezza che egli stesso dedicava alla responsabilizzazione del risparmiatore in un’epoca in cui ancora circa il 40% della popolazione era analfabeta e, quindi, in teoria molto più facilmente raggirabile rispetto ai nostri tempi.

Eppure, nonostante finalmente qualcosa si muova, l’educazione finanziaria resta un tabù e, ciclicamente, ci si ritrova a discutere delle forme di intervento statale per porre rimedio a rischi sistemici e non, sia in Italia sia in Europa, facendo leva sulla salvaguardia dei piccoli risparmiatori, senza però attrezzare e responsabilizzare quest’ultimi alla miglior difesa possibile: quella individuale.

Twitter @frabruno88

 

[1] Einaudi Luigi, “La difficile arte del banchiere”, Editori Laterza. Gli estratti del libro citati nel testo hanno come fonte i seguenti articoli pubblicati sul Corriere della Sera: “Vincoli legali o riforma di vocabolario? (A proposito dei depositi a risparmio presso la Banca ordinaria)”, 26 aprile 1913; “Verità ovvie e precedenti notabili in tema di crisi bancarie”, 4 febbraio 1922; “L’azione del governo. Albo signanda lapillo”, 14 febbraio 1922; “Le ragioni dell’intervento dello stato”, 15 febbraio 1922; “I metodi ed il costo dei salvataggi bancari”, 5 ottobre 1923; “Il salvataggio delle banche. Le anticipazioni alla «Sconto» e le perdite dello stato”, 11 ottobre 1923.