La crisi bancaria degli anni Venti e l’utile rilettura di Piero Sraffa

scritto da il 12 Luglio 2016

Negli anni ’20 non si parlava di “bail-in”, “burden sharing” (non era proprio opportuno usare anglicismi…) o di aiuti di Stato, ma di certo non era un periodo tranquillo per le banche italiane. Una vicenda molto interessante e, per alcuni versi, attuale è quella della Banca Italiana di Sconto, fallita dopo innumerevoli tentativi di salvataggio, che causò perdite importanti ai suoi creditori.

La breve storia della banca contiene alcuni elementi che, a tratti, ricordano la tribolata situazione attuale, nonostante le epoche diverse e il contesto completamente differente.

Riusciamo ad avere una narrazione precisa e dettagliata degli eventi grazie alla penna del grande economista Piero Sraffa, che ricostruì i fatti in un articolo pubblicato sul “The Economic Journal” nel giugno 1922, “La crisi bancaria in Italia[1].  La Banca Italiana di Sconto (“BIS” nel prosieguo) fu fondata nel 1914 da finanzieri italiani e francesi e crebbe enormemente (dopo due fusioni importanti) durante la Grande Guerra, arrivando ad aprire ben 220 filiali (per dare un’idea la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma ne contavano congiuntamente 269).

Il fallimento della Banca Italiana di Sconto

Schermata 2016-07-12 alle 11.22.38Il destino della banca, oltre che da una pessima governance, fu segnato dal legame con la società Ansaldo, la quale crebbe enormemente durante la guerra e che era solita usare la BIS come una sorta di bancomat, avendo raggiunto posizioni di maggioranza nell’assemblea dello stesso istituto di credito. Poi la guerra terminò, troppo presto però per Ansaldo, affetta da un eccesso di produzione e troppo esposta nei confronti della BIS. Ecco perché la società tentò di scalare (senza fortuna, a causa dell’intervento del Governo) la Banca Commerciale Italiana, provando a scacciare a furor di popolo il “nemico” tedesco che controllava quest’ultima.

Lo Stato interveniva spesso nelle questioni bancarie e già lo aveva fatto prima dell’armistizio, sponsorizzando un aumento di capitale della BIS con una «propaganda patriottica che fece credere al pubblico che si trattava di una sottoscrizione nazionale». Ma dopo la fine del conflitto, le risorse dell’aumento di capitale erano già svanite rapidamente.

Sraffa descrisse poi alcune caratteristiche del “sistema a catena” delle banche italiane. Ad esempio, la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano (oggetto di tentata scalata da parte della FIAT) provarono ad aggirare, attraverso la creazione di consorzi e compagnie, il divieto di acquisto di azioni proprie. Gli amministratori finirono sotto processo, ma siccome alcuni membri dei CdA erano anche Senatori, le azioni legali subirono un rallentamento dinnanzi all’Alta Corte di Giustizia del Senato.

Nel frattempo la BIS provava a risollevarsi con gli anticipi di garanzia concessi dalle Banche di emissione (Banca d’Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia) e accettando dal pubblico prestiti sotto forma di titoli di stato (tasso 0,5-1%), che a loro volta venivano usati come garanzie per i prestiti (al tasso del 6%) ricevuti dalle Banche di emissione (oggi diremmo “diabolic loop”). Era un vicolo cieco, ovviamente, ma la farsa continuava, con profitti (inesistenti) di ben 40 milioni nel 1921 e con dividendi distribuiti pari all’8% (sic!). Ma le notizie si diffusero inevitabilmente e iniziò una corsa agli sportelli.

Prima della chiusura (dicembre ’21), le Banche di emissione (garantite dallo Stato) tentarono di salvarla, costituendo un consorzio che impegnò 600 milioni di lire, per smobilizzare i debiti sofferenti di Ansaldo (oggi diremmo “NPL”). Ma servivano 2 miliardi. La BIS era ormai “Too Big To Save”. Il Governo si accollò parte delle perdite, i creditori di importi minori a 5.000 lire ottennero il 67% del loro credito, quelli con più di 5.000 lire il 62% (oggi diremmo “un piccolo bail-in”).

Poi l’affondo finale di Sraffa, prima nei confronti del capitalismo (di relazione) italiano: «Vi è l’urgente necessità (…) di rimettere le industrie sotto il controllo (…) degli azionisti, cui questo scopo è demandato per legge, che (nda) hanno mostrato definitivamente la propria incapacità a svolgerlo. L’ignoranza diffusa, l’assenza di una stampa finanziaria indipendente e bene informata, la mancanza di familiarità con gli investimenti mobiliari, sono all’origine della situazione, un sintomo della quale è il quasi completo assenteismo degli azionisti alle assemblee, cosicché, spesso, i possessori di un piccolo gruppo di azioni possono impadronirsi di una società». Poi nei confronti del Governo, che continuava ad emanare leggi: «Ma anche se queste leggi non fossero inutili in se stesse, quale potrebbe mai essere il loro uso finché il Governo si presta ad essere il primo ad infrangerle non appena è ricattato da una banda di malfattori o da un gruppo di finanzieri ribaldi?».

Il secondo articolo, Keynes e le ire di Mussolini

Come noto, Sraffa era molto ammirato da John M. Keynes. Fu il celebre economista a sceglierlo, circa dieci anni dopo, per proseguire il carteggio avvelenato con il rivale austriaco Hayek, chiedendogli di recensire (stroncare) l’opera del Nobel viennese “Prices and Productions”. Keynes scelse Sraffa per le sue eccellenti doti argomentative, che avevano portato il filosofo Wittgenstein a dire, dopo un incontro con l’economista italiano, di «(…)sentirsi come il tronco spoglio di un albero privato dei suoi rami».[2]

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Nel ’22 Keynes chiese a Sraffa di scrivere un pezzo sulla situazione bancaria italiana, da inserire nella sua serie “Reconstruction in Europe”, inerente alle grosse banche italiane. Nell’articolo, “L’attuale situazione delle banche italiane”, Sraffa criticò la soluzione tampone del “Consorzio per sovvenzioni su valori industriali”, finanziata dal Governo e dalle Banche di Emissione: «(…) l’intenzione di trasformare il Consorzio da un organismo di tempi eccezionali in una istituzione permanente, destinata secondo tale intenzione, a colmare il vuoto prodottosi nell’organismo bancario italiano (…)», forse con lo scopo sotteso  di essere «(…) una comoda trovata che permetta anche nell’avvenire di addossare sistematicamente alle Banche di emissione, e in definitiva allo Stato, le operazioni sfortunate delle banche ordinarie». Oggi diremmo “moral hazard”.

Nel frattempo però, la storia italiana era mutata irrimediabilmente. Nell’ottobre ’22 Mussolini aveva ottenuto il potere ed era alle prese con la crisi del Banco di Roma. L’articolo di Sraffa ostacolava le intenzioni del neonato regime e il Duce, che riteneva lo scritto una “diffamazione contro l’Italia”, scrisse ad Angelo Sraffa, padre di Piero, illustre docente di diritto commerciale e rettore della Bocconi, ma Piero si rifiutò di pubblicare smentite. Già nelle mire dei fascisti in quanto amico di Gramsci, venne accolto da Keynes a Cambridge. In Italia ormai per lui tirava una brutta aria. Che continuò a tirare anche per il padre, che già era stato vittima di un agguato fascista.

Presente e futuro del sistema bancario italiano

Per fortuna siamo lontani da un’epoca fatta di rappresaglie e spedizioni punitive, ed abbiamo fatto enormi passi negli ultimi 100 anni, ma è comunque utile rileggere Sraffa e ricollegarlo ai fatti degli ultimi vent’anni. Un capitalismo di relazione, immerso in un sistema ancora troppo banco-centrico, soluzioni tampone ed emergenziali, nuove leggi emanate di continuo (anche a livello europeo) e continuamente disapplicate.

Lo scopo dell’Unione Bancaria era quello di rompere il legame diabolico stati-banche nazionali e di creare una struttura efficiente, in grado di gestire le crisi bancarie con il minimo dispendio di risorse dei contribuenti. Ma il disegno è ancora incompleto (manca l’Euro-assicurazione sui depositi) e, soprattutto, la transizione sta avvenendo senza aver risolto previamente il problema della legacy. Il meccanismo avrebbe poi bisogno di un fiscal backstop, che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere l’Esm. Ma quest’ultimo non piace, per alcuni aggiustamenti macroeconomici che richiede ai finanziati e perché – per la ricapitalizzazione diretta delle banche – richiede un preventivo bail-in. Eppure il vantaggio dell’Esm dovrebbe essere quello di aiutare chi è solvente ma con problemi di liquidità, prevenendo rischi di azzardo morale.

La sensazione è invece quella che si continuerà a procedere con soluzioni tampone, emergenziali, senza affrontare alcuni malanni di fondo del sistema.

Too Big To Change.

Twitter @frabruno88

 

NOTE

[1] Ringrazio il Centro di Ricerche e Documentazione “Piero Sraffa” e il Professor Roberto Ciccone per la fornitura di parte dei materiali richiamati nel pezzo, inclusi nel volume “Piero Sraffa, Saggi, Bologna: Il Mulino, 1986”

[2] I retroscena su Sraffa e Keynes sono tratti dal libro “Keynes o Hayek: Lo scontro che ha definito l’economia moderna” di Nicholas Wapshott