Curve pericolose: che fine ha fatto la relazione fra inflazione e disoccupazione?

scritto da il 05 Ottobre 2017

Il mistero dell’inflazione mancante e il puzzle del mercato del lavoro, dove si assiste a situazioni di quasi piena occupazione in cui prosperano forme contrattuali atipiche che scoraggiano la crescita delle retribuzioni, hanno finito col mettere in discussione uno degli schemi interpretativi più comunemente utilizzato nella modellistica macroeconomica e conosciuto dal grande pubblico: la curva di Phillips. Ossia quella relazione che lega il livello dell’inflazione a quello della disoccupazione, ipotizzando una relazione inversa fra le due variabili. Più decresce la disoccupazione, e quindi il mercato del lavoro è sotto pressione, più l’inflazione tende a prendere quota. Così almeno illustrava la curva nella sua versione originaria, che risale a fine anni ’50.

Da allora lo strumento è stato molto raffinato, ma il senso della relazione è rimasto lo stesso. Per questa ragione osservare l’inflazione è importante per congetturare sullo stato di salute di un’economia. Per i banchieri centrali, poi, l’inflazione è l’ago della bussola, come lo ha definito di recente Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Bis, la Banca dei regolamenti internazionali, in un recente e illuminante intervento che tratta fra le altre cose proprio della relazione che ha reso celebre Phillips.

Nel suo speech, Borio ipotizza che “stiamo sottostimando l’influenza che i fattori reali hanno sull’inflazione, anche su orizzonti lunghi”. In tal senso la famosa affermazione di Milton Friedman secondo la quale l’inflazione è sempre un fenomeno monetario, sottolinea Borio, “dovrebbe essere più sfumata”, visto che “il comportamento dell’inflazione sta diventando sempre più difficile da capire”. “Se si è completamente onesti – sottolinea – è difficile evitare la domanda: quanto davvero sappiamo del processo inflazionistico?”. Perché è evidente che mentre tutti sanno cosa sia l’inflazione – la crescita dei prezzi – oggi assai meno sono sicuri di sapere cosa la determini.

“Dopotutto – aggiunge Borio – dall’inizio della crisi finanziaria i policy-maker (su tutti, lo ripeto, le banche centrali, che su certi dati fondano le scelte di politica monetaria e che sull’inflazione si sono leggermente impantanate) sono stati ripetutamente sorpresi. Nella fase di recessione, l’inflazione è stata maggiore del previsto, considerando la profondità del crollo. Durante la successiva ripresa, in generale, è stata inferiore al previsto. E nonostante gli enormi sforzi per farla risalire, è rimasta ostinatamente bassa”. I dispetti dell’inflazione, insomma, hanno provocato la crisi di gran parte dei modelli interpretativi usati dagli osservatori per comprendere la realtà. Nulla di strano, in fondo.

Borio ricorda che la comprensione dell’inflazione è stato sempre uno dei compiti più difficile della professione degli economisti e cita il lavoro di Charles Goodhart, che di recente ha isolato le tre “mode” che dagli anni ’50 ad oggi hanno convinto di volta in volta tutti di aver finalmente capito l’inflazione. Fra gli anni ’50 e i ’70 il focus era sul mercato del lavoro e il relativi accordi contrattuali, con pochi riferimenti alla domanda aggregata. Dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ’90 divennero di moda la moneta e gli aggregati monetari. Dall’inizio dei ’90 sono diventati celebri il NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment) e il ruolo delle aspettative, che hanno condotto alla “prominenza nelle previsioni della curva di Phillips nei quadri analitici predominanti di oggi”. Ma “potrebbe essere che sappiamo meno di quello che pensiamo? Possiamo aver sovrastimato la nostra capacità di controllare l’inflazione, o almeno di cosa servirebbe per farlo?”. Alcune osservazioni ci aiutano in questo processo di comprensione.

La prima è che il collegamento fra le risorse inutilizzate in un’economia e l’inflazione “si è dimostrato piuttosto debole almeno da un paio di decenni”. O meglio “se uno si sforza abbastanza si può anche trovare (il collegamento, ndr), ma non è quel tipo di relazione che si può definire robusta”. Le osservazioni statistiche mostrano che “la risposta all’inflazione come misura delle sottoutilizzazioni nel mercato del lavoro tende a declinare nel tempo fino a diventare statisticamente indistinguibile da zero”.

Eccola qui sotto la curva che si appiattisce:

Fonte: Bis

Fonte: Bis

Come si può osservare, l’andamento inizia dagli anni ’90. “Sorprendentemente, una risposta debole dei salari alle condizioni economiche è risultata in grande evidenza, di recente, in molte economie avanzate. I mercati dei lavoro sono risultati molto tesi, secondo gli indicatori tradizionali, ma la crescita dei salari è rimasta anemica. Come possiamo spiegare questi andamenti?”.

Di recente ci ha provato anche il Fmi, notando come alla crescita degli indici di occupazione abbia corrisposto un aumento delle forme contrattuali atipiche. E questa può essere una pista interessante da seguire.  Ma Borio ricorda che la spiegazione più popolare, è che la grande credibilità anti inflazione guadagnata dalle banche centrali, di recente la BoE ha festeggiato i vent’anni della sua indipendenza, ha contribuito ad “ancorare” le aspettative dell’inflazione al ribasso, staccandole dalla relazione salari/prezzi.

Ma forse anche altre ipotesi andrebbero considerate. “È ragionevole – si chiede Borio – credere che il processo di inflazione sia rimasto immune all’entrata nell’economia globale dell’ex blocco sovietico e della Cina e all’apertura delle altre economie di mercato emergenti?”. Stiamo parlando di circa 1,6 miliardi di persone che si sono aggiunte alla forza lavoro globale col risultato che il peso specifico della forza lavoro nelle economie avanzate si è ridotto notevolmente, addirittura a metà di quello che era prima nel 2015. Ciò significa che, i “nostri” mercati del lavoro pesano di meno sulle dinamiche globali. “Allo stesso modo, possiamo essere rimasti immuni agli sviluppi tecnologici che hanno consentito la delocalizzazione della produzioni di beni e servizi in tutto il mondo?”.

Ed eccoli due possibili candidati che hanno fatto finire fuori moda la curva di Phillips: la globalizzazione dei mercati del lavoro e la tecnologia. “Sappiamo che i lavoratori non devono più soltanto competere con chi è più vicino a loro, ma anche con i lavoratori all’estero”. Detto altrimenti, le influenze degli effetti della globalizzazione sull’inflazione potrebbero essere di vario genere. “Ipotizzando una curva di Phillips globale – aggiunge – ci si potrebbe aspettare che eventuali risorse inutilizzate a livello domestico siano una misura insufficiente delle pressioni inflazionistiche o disinflazionistiche: conterebbero pure le risorse inutilizzate a livello globale”. Oppure “si potrebbe ipotizzare che l’ingresso nel mercato di produttori e lavoratori a basso costo generi una pressione persistente al ribasso sull’inflazione, specialmente nelle economie avanzate almeno finché i costi non convergano”.

Fin qui la teoria. Ma che dice la prassi? “Molti studi hanno mostrato che la componente globale dell’inflazione è cresciuta costantemente nel tempo”. Le ragioni possono essere diverse “incluse la diffusione dell’inflation targeting, un ovvio candidato”. Il grafico qui sotto mostra come sia cresciuta l’influenza dei fenomeni globali sull’andamento del costo unitario del lavoro dagli anni ’80 ad oggi. Altri studi, fondati sull’analisi della catene globali di valore mostrano un meccanismo simile all’opera e indicano che il grande shock della globalizzazione, iniziato nei primi anni del ’90 ha contribuito in grande misura a far finire fuori strada la vecchia curva di Phillips.

Fonte: BIs

Fonte: Bis

Come se non bastasse, sono all’opera pure dinamiche che conosciamo poco, a cominciare dall’influenza che il progresso tecnologico ha e soprattutto avrà sull’economia. Si pensi alle polemiche e alle paure che solleva il tema dello sviluppo dei robot. Una cosa però dovremmo darla per intesa: i fatti dell’economia reale, un’economia che si sviluppa su scala globale ed è caratterizzata da una forte componente tecnologica, pesano sugli andamenti dell’inflazione. In fondo il bravo Phillips scriveva negli anni ’50.

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