Il fallimento non c’è più: le parole dell’economia cambiano, i problemi restano

scritto da il 20 Ottobre 2017

L’autore di questo post è Giuseppe Amoroso, “fino ad ieri avvocato fallimentarista in Milano” –

Nella Roma  del seicento, governata dal Papa re, ai falliti era imposto di circolare con un berretto verde (da questa usanza deriva l’espressione “sono al verde”, che si usa ancora oggi per esprimere una situazione di estremo disagio economico).

Nella Repubblica laica di Genova, nello stesso periodo, ai commercianti ambulanti falliti veniva rotto il banco su cui avevano esercitato l’attività (ancora oggi, nel diritto anglosassone “fallimento” si dice “bankruptcy”; nel nostro diritto, “bancarotta” qualifica il reato tipico del dissesto).

In Italia, come è noto, il modo tipico di affrontare un problema grave è di cambiargli il nome. Così, i ciechi sono diventati “non vedenti”,  i paralitici “disabili”, le donne di servizio “colf”… Ovviamente questo non ha fatto riacquistare la vista ai ciechi, né camminare gli invalidi.

Dalla fine degli anni ’60, con la prima “legge Prodi”, si è cominciato a parlare di “crisi”; vent’anni dopo, con la “Prodi bis”, si è usato il termine “stato di insolvenza”. Ora, finalmente, si è preso il toro per le corna e si è abolita del tutto la parola chiave.

Il fallimento è sparito, non c’è più.

Lo ha sostituito il termine, molto più “soft”, di “liquidazione giudiziale”.

Il legislatore, come un mago felliniano, ha fatto sparire il coniglio.

Tutto bene, problema risolto?

Una delle battute migliori di Woody Allen dice, all’incirca: “Vorrei tanto lasciarvi con una notizia positiva, ma non posso. Vanno bene due notizie negative?” La prima è che è stata abolita dal lessico  giuridico una parola carica di storia e di pregnanza economico-sociale. La seconda è che il problema di diecimila negozi che hanno chiuso in Lombardia negli ultimi anni è ancora tutto lì, che la disoccupazione, giovanile e non, resta elevatissima, che la ripresa strombazzata sui media non si vede affatto in giro, che i dissesti delle piccole, medie e grandi imprese italiane ci sono ancora.

Solo che non possiamo più chiamarli “fallimenti”.