Al Sud non lavora nessuno, per forza che se ne vanno tutti

scritto da il 07 Gennaio 2018

Pubblichiamo un post di Fedele De Novellis, partner ed economista senior di REF Ricerche –

Nel precedente post ho analizzato l’ampiezza dell’offerta di lavoro potenzialmente attivabile nel nostro paese, indicando come, oltre ai disoccupati classificati come tali secondo la definizione ufficiale (che richiede di non avere lavorato e di avere effettuato azioni di ricerca attiva nel periodo di riferimento della rilevazione), vi siano molte persone il cui stato può essere in una certa misura assimilato a quello del disoccupato.

Naturalmente, come per tutte le analisi del mercato del lavoro in Italia, anche questa elaborazione presenta spunti di interesse se la si scompone evidenziando le differenze territoriali.

Dalla rappresentazione offerta dai due grafici seguenti – che fanno riferimento al Centro-Nord e al Mezzogiorno rispettivamente – emergono alcune riflessioni.

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Innanzitutto, si nota come al Centro-Nord la relativa tenuta dei livelli dell’occupazione (ritornati al di sopra dei massimi pre-crisi) sia stata conseguita grazie a un importante ampliamento dei lavoratori nella condizione di part-time involontario, un fenomeno che è risultato dilagante, giungendo a rappresentare quasi una forma di suddivisione dei costi della crisi, alla stregua di un ammortizzatore sociale.

Rispetto al 2007 l’aumento è di oltre un milione di persone; l’occupazione al netto di questi lavoratori è ancora distante dai massimi pre-crisi. Interessante anche il peso che ha avuto la Cig negli anni della crisi, arrivando a interessare nel picco del 2009-2010 una quantità di ore equivalenti a circa 240mila occupati a tempo pieno.

Il peso dei part-time involontari è importante anche perché evidenzia le ampie possibilità di aumento dell’input di lavoro che oggi le aziende del Centro-Nord possono ottenere senza bisogno di ricorrere a un aumento del numero degli occupati, ma più semplicemente aumentando gli orari di coloro che già lavorano. Meno rilevante invece nelle regioni del Centro-Nord il fenomeno dello “scoraggiamento”: se le forze di lavoro aumentano di circa un milione in dieci anni, l’incremento calcolato sulla definizione più ampia è superiore di sole 300mila persone.

Naturalmente il quadro di complica se si guarda alle tendenze nel Mezzogiorno. In parte perché in queste regioni la situazione era già deteriorata prima che arrivasse la crisi; in secondo luogo perché il fenomeno dello scoraggiamento assume una dimensione del tutto anomala: sono quasi due milioni quanti dichiarano che sarebbero disposti a lavorare senza essere classificati fra i disoccupati (che sono un milione e mezzo). Se si considera che gli occupati, una volta tolti i part-time involontari, sono appena 5 milioni, si calcola che il tasso di disoccupazione, già intorno al 20 per cento nelle statistiche ufficiali, si porta sopra il 45 per cento, se si considerano occupati e forze di lavoro nelle definizioni estreme riportate nel grafico.

Il punto è che, se quantificazioni diverse dell’incidenza dei disoccupati sono possibili in tutti i paesi, differenze ampie come quelle che si riscontrano al Sud non hanno analogie in altri contesti. Non solo. Va anche considerato che la dimensione della disoccupazione proposta dalla definizione più ampia è anche quella che corrisponde alla percezione che i cittadini del Mezzogiorno hanno delle reali opportunità occupazionali offerte dal loro territorio.

In conclusione, se è vero che i criteri di classificazione internazionali sulla base dei quali si definisce lo stato di una persona in funzione della sua partecipazione al mercato del lavoro sono condivisi sulla base di standard consolidati, non dobbiamo dimenticare che viviamo in una fase storica in cui tutto è cambiato, e fenomeni di lavoratori in posizioni “marginali”, non riconducibili alle fattispecie più tradizionali, possono alterare il significato delle statistiche, limitandone la capacità descrittiva della realtà.

Twitter @fdenovellis1