Una Banca Pubblica per l’innovazione? Caro Casaleggio, no grazie!

scritto da il 04 Aprile 2018

Il modello della Banca Pubblica per gli investimenti proposto da Davide Casaleggio, in un suo recente intervento, desta alcune perplessità con riferimento alle conclusioni presentate in una ricerca commissionata alla Casaleggio Associati dalla società di consulenza Valore che a sua volta lavora su mandato di enti e casse di previdenza. Una prima risposta al dibattito aperto da Casaleggio è arrivata dal prof. Carlo Alberto Carnevale Maffè che ha evidenziato come l’idea di creare una IRI del Venture Capital sia un’assurdità e piuttosto sia meglio puntare su un’estensione del modello dei PIR includendo una versione dedicata agli investimenti ad alto contenuto tecnologico che consenta un orizzonte temporale più ampio. Concordo. Ma c’è dell’altro.

Il punto focale della proposta di Casaleggio riguarda l’innovazione digitale delle aziende favorita dagli investimenti di capitale privato: venture capital e private equity appunto.

Indubbiamente l’innovazione tecnologica rappresenta il principale driver per lo sviluppo e la crescita economica. Come già osservato in una mia recente analisi su Econopoly è bene considerare che si tratta di un processo che si articola in più fasi a partire dal miglioramento della produttività marginale dei fattori di produzione. Un processo che, evidentemente, non può essere ordinato per legge, così come non si creano posti di lavoro per legge. Invece, quello che è possibile fare per legge riguarda, in particolare, gli interventi sulle condizioni al contorno, ossia sull’infrastruttura di mercato (regole certe, tempi certi, efficacia ed efficienza del diritto) che permetta all’investitore razionale di poter effettuare le proprie scelte allocative di risparmio e di consumo. Insomma un processo virtuoso che può essere avviato, come nel modello di crescita endogena di R. Solow[1], dall’innovazione tecnologica, oggi particolarmente necessaria nella digitalizzazione delle imprese, in particolar modo nel settore della pubblica amministrazione.

L’innovazione tecnologica, pertanto, agendo sulla capacità produttiva delle imprese, rende gli investimenti più attrattivi ed attiva quel ciclo virtuoso che passa per la domanda di investimenti creando crescita e prosperità. Ecco che la domanda di investimenti appare come il vero tema di fondo.

Si può facilmente convenire che gli investimenti pubblici rappresentano un valido elemento di politica fiscale da una parte, ma dall’altra non possono costituire l’unica soluzione su cui far affidamento, soprattutto in termini di sostenibilità per il nostro Paese che presenta livelli ingenti di debito pubblico. Inoltre, dall’ampio dibattito, peraltro sempre aperto, sul ruolo e sull’intervento attivo dello Stato in economia emerge che, ove desiderabile, non riguarda sicuramente gli ambiti nei quali può esistere un mercato nel quale il settore privato ha già le competenze per allocare in modo efficiente le risorse, primo fra tutti quello degli investimenti finanziari.

La domanda principale che dobbiamo porci è: perché non si investe in Italia?

Ogni investitore guarda al profilo rischio-rendimento dell’investimento. Le opportunità di investimento derivanti da un miglioramento della produttività delle aziende, quindi da una loro crescita, rappresenta il rendimento (il c.d. “reward”), l’altra faccia della medaglia è il rischio connesso all’investimento. In generale, un investitore per poter investire richiede una remunerazione per il rischio assunto, chiamato “premio al rischio”. L’investitore privato è razionale, a parità di rischio investe dove il rendimento è maggiore. Ma il ragionamento può essere anche ribaltato, a parità di rendimento se diminuisce il rischio l’attrattività dell’investimento stesso aumenta.

L’innovazione tecnologica, come detto, offre un’opportunità di sviluppo per le imprese, specialmente le PMI italiane che presentano ampi potenziali di crescita. Dunque una forte prospettiva di aumento del rendimento per gli investimenti in economia reale.

A che punto siamo oggi? L’osservatorio di AIFI (Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt) in collaborazione con PwC ha presentato la scorsa settimana la fotografia del mercato:

Grafico 1. Evoluzione dei capitali raccolti sul mercato per tipologia di operatore (Euro Mln) - Fonte: AIFI, PwC – Rapporto sul mercato italiano 2017

Grafico 1. Evoluzione dei capitali raccolti sul mercato per tipologia di operatore (Euro Mln) – Fonte: AIFI, PwC – Rapporto sul mercato italiano 2017

Grafico 2. Evoluzione dell’origine geografica dei capitali raccolti sul mercato da soggetti privati - Fonte: AIFI, PwC – Rapporto sul mercato italiano 2017

Grafico 2. Evoluzione dell’origine geografica dei capitali raccolti sul mercato da soggetti privati – Fonte: AIFI, PwC – Rapporto sul mercato italiano 2017

Se il potenziale maggior rendimento sembra raggiungibile, tramite l’innovazione tecnologica, quello su cui si potrebbe agire per migliorare quel rapporto rischio-rendimento che dicevamo è proprio la mitigazione del rischio degli investimenti in economia reale.

Ma quale è la ricetta da seguire?

Non quella di fare una Banca Pubblica, evidentemente. Ma quella prima di tutto di assicurare la certezza del diritto. L’investitore non vuole sopportare il rischio di incertezza sul business svolto dalle aziende.

Poi, incidere sulle inefficienze e ridondanze, ancora oggi non risolte, ad esempio nel ciclopico apparato burocratico. Ancora, investire nelle infrastrutture e nella formazione specifica, in particolar modo sull’alfabetizzazione finanziaria, carente nei giovani ma pure, ed in maniera preoccupante, in parte della classe dirigente attuale.

Infine, quello che può fare la differenza è la presenza di investitori istituzionali in un fondo di private equity o venture capital in quanto ne rappresentano un’importante mitigazione al rischio per gli investitori, soprattutto per quelli esteri.

Ecco che una visione “sovranista” come quella prospettata da Davide Casaleggio appare quanto meno superata. Prima di tutto perché esiste già Invitalia che è l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del Ministero dell’Economia e che “gestisce tutti gli incentivi nazionali che favoriscono la nascita di nuove imprese e le startup innovative”, come si evince dal sito web istituzionale dell’Agenzia.

Insomma, i punti da cui parte la proposta di Casaleggio sono corretti, ma la conclusione pare aberrante in senso di efficienza economica delle risorse pubbliche.

Gli interventi di policy, quindi, devono essere tesi a migliorare quel rapporto rischio-rendimento, promuovendo l’innovazione tecnologia e mitigando i rischi che si assume chi investe. Primo fra tutti il rischio Paese. In questo senso si dovrebbe promuovere il ruolo degli investitori Istituzionali: fondi Pensione, Casse di Previdenza, Fondazioni e Finanziarie regionali, come anchor investor su fondi di private equity e venture capital in quanto possono rappresentare una vera opportunità di sviluppo del mercato degli investimenti in economia reale.

Grafico 3. Distribuzione regionale del numero di investimenti realizzati nel 2017 - Fonte: AIFI, PwC – Rapporto sul mercato italiano 2017

Grafico 3. Distribuzione regionale del numero di investimenti realizzati nel 2017 – Fonte: AIFI, PwC – Rapporto sul mercato italiano 2017

Pensiamo ad un caso concreto: la Lombardia, prima ragione per numero di operazioni di capitale privato (si veda Grafico 3). La Lombardia oggi può proseguire in un percorso virtuoso con una propria locomotiva, promuovendo, appunto, il proprio ruolo di investitore di riferimento svolto da Finlombarda (la finanziaria regionale), anche alla luce di una prospettiva tesa al raggiungimento di una maggiore autonomia, peraltro voluta sia dalla sinistra che dalla destra.

Milano e la Lombardia possono oggi ambire a divenire un vero e proprio “Hub della finanza alternativa”, un vero distretto finanziario per l’economia reale che possa, si auspica, trasformare l’innovazione tecnologica in innovazione culturale, linfa vitare per formare una classe dirigente in grado di assicurare quella prosperità economica per tutto il Paese. In un Italia dei distretti, il modello ad hub è quello che sarebbe in grado di finanziare il mondo delle startup e delle PMI.

Twitter @pasqualemerella

 

[1] Nel 1953 Robert Solow, successivamente premio Nobel, pubblicava il paper rivoluzionario sul suo modello di crescita economica endogena.