L’Italia scelga: Milano o Roma, apertura o chiusura, merito o arretratezza

scritto da il 21 Giugno 2018

Oh Milano, sono contento che ci sei.
Vincenzo dice che sei fredda,
frenetica senza pietà
ma è cretino e poi vive a Roma, che ne sa?
Alberto Fortis, “Milano e Vincenzo”

Nei giorni scorsi è stato presentato a Milano il rapporto della Banca d’Italia sull’economia della Lombardia. Mentre il direttore della sede milanese Giuseppe Sopranzetti illustrava i buoni dati del 2018 e spiegava le ragioni della vivacità della congiuntura – a fronte del contesto politico nazionale che stiamo vivendo – mi sono chiesto se Milano non stesse vivendo un mondo a parte, una storia a sé, ben diversa da quella italiana.

A Milano l’economia va (molto meglio che in Italia), i servizi tirano, gli atenei continuano ad attrarre studenti dall’estero, la mobilità sociale è alta. Chi studia e si impegna, ha le chance per emergere. La meritocrazia esiste e funziona. Le imprese vivono di concorrenza e di apertura internazionale. Tornano in mente le “3 T” di Richard Florida: tolleranza, talento, tecnologia. A Milano non importa che preferenze sessuali hai, di che colore è la tua pelle, importa cosa sai fare e come risolvi i problemi (peraltro a Milano grillini e leghisti non sono in maggioranza, anzi). Mario Draghi nelle sue Considerazioni finali del 2010 parlò di “capacità di fare e desiderio di sapere”.

In Italia in questi anni si è soffiato sulla paura. Dello straniero, del diverso, della Germania. Nonostante gli sbarchi si siano ridotti notevolmente, la metà degli italiani si sente in pericolo. I media hanno cavalcato queste paure, generando ulteriori insicurezze. Chi ha soffiato sul fuoco, ha vinto le elezioni. Ignazio Silone diceva che “la povera gente è sempre in paura”. La lotta contro la miseria è il miglior antidoto alla paura. Se si spendono miliardi di euro in pensioni a retributivo, poco rimane per chi ha veramente bisogno.

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“Capitale corrotta, nazione infetta”, titolava in prima pagina L’Espresso ai suoi albori nel 1955. E oggi Roma come se la passa? Malissimo. In due anni l’amministrazione capitolina con a capo la pentastellata Virginia Raggi non ha fatto quasi nulla per risollevarne le sorti. Non si contano più assessori dimissionari e collaboratori arrestati, grazie all’ottimo lavoro dell’Unità di Informazione finanziaria guidata dall’ottimo Claudio Clemente. I recenti arresti del costruttore Parnasi (già uno dei maggiori debitori della Banca Popolare di Vicenza) e di Luca Lanzalone, avvocato e manager, premiato da Luigi di Maio con la presidenza di Acea (società quotata!) non fanno che peggiorare la situazione. Ha ragione Piero Bassetti: “Roma è una palude. A me la capitale piace moltissimo, ma l’unica cosa buona che ci trovo è il Papa…Milano deve stare attenta a non diventare un surrogato di Roma, altrimenti finirà male”.

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Come finirà questa battaglia tra sovranisti con il rosario in mano, desiderosi di chiudere le frontiere, ancora nostalgici delle svalutazioni competitive, contro la moneta unica, fautori del deficit spending, affascinati dalle democrazie illiberali di Orbàn e Putin e, dall’altra, gli imprenditori aperti alla concorrenza internazionale, coloro che fanno grande l’Italia esportando a più non posso, riempiendo di miliardi di euro il nostro avanzo delle partite correnti, coloro che amano la scienza e sorridono al complottismo no-vax?

La speranza è che vincano i secondi.

Lo storico Emanuele Felice ha riassunto così il percorso italiano secondo la diade società aperte e chiuse di Karl Popper: “Dopo la seconda guerra mondiale, pur con qualche difficoltà il nostro Paese si è sempre mosso nel solco delle società aperte. Per fortuna: quella scelta di campo ha garantito sviluppo e benessere”.

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Nel 2018 ha senso rinchiuderci nei nostri confini e denigrare la globalizzazione che ha consentito a miliardi di persone di uscire dalla povertà? Un Paese come il nostro, che ha un enorme avanzo nella bilancia commerciale, che vive di export, che produce cose che “piacciono al mondo” (Carlo M. Cipolla, cit.) non può permettersi di vivere come una beghina, refrattaria agli scambi internazionali.

Speriamo abbia ragione Sergio Fabbrini, che vede nel “vento del Nord” e nelle componenti giovani del Sud motivi di conforto: “Una parte influente dell’elettorato leghista così come componenti urbane della gioventù meridionale avrebbero molto da perdere dalla marginalizzazione europea dell’Italia”. Chi sogna il Paese dei Balocchi si sveglia dal torpore delle illusioni con una gran botta.

Così scriveva il compianto Marcello de Cecco: “Lucignolo assieme a Pinocchio sale sul carro dell’omino piccino e si avvia senza una cura al mondo verso il paese del balocchi, ignaro che il destino suo, del suo amico e di quelli come loro, sia di trasformarsi in una schiera di asini, anzi di ciuchini, o come si dice nella metà dell’Italia alla quale mi onoro di appartenere, di ciucci. E ai ciucci, ciuchini, mussi, asini, tocca di girare in tondo, aggiogati al bindolo per tirare l’acqua del pozzo altrui” (L’economia di Lucignolo, Donzelli, 2000, p. 11).

Twitter @beniapiccone