Gli investimenti pubblici siano il cardine della politica economica. Ecco quattro priorità

scritto da il 02 Ottobre 2015

Negli ultimi mesi di governo, sembra che sia calato l’interesse verso il taglio della spesa corrente, che è senza dubbio prodromico a dare maggiore spazio agli investimenti pubblici. La conferma viene dalla Nota di Aggiornamento del documento di Economia e Finanza 2015, approvata dal Consiglio dei Ministri del 18 settembre scorso.

Alla voce «totale spese in conto capitale» si passa da 64,3 ai 57,6 miliardi di euro del 2019, con un calo del 10,4%. Il fatto che gli investmenti scendano è molto negativo. Negli ultimi 50 anni abbiamo privilegiato il consenso – che costa in spesa corrente – a scapito degli investimenti, che hanno un duplice vantaggio:

1) contrastano la congiuntura sfavorevole, aumentando la domanda aggregata (politica classica keynesiana)

2) hanno un moltiplicatore quasi doppio nell’immediato, triplo nel tempo, rispetto ai trasferimenti pubblici e alla detassazione (Ciocca, cit.).

Tornano attuali le Considerazioni finali di Paolo Baffi, che nel 1978 scrisse: «Se si è convinti che la spesa pubblica corrente ha raggiunto valori insostenibili, che essa non risponde in modo appropriato alle esigenze sociali e che per di più ha in sé fattori di ulteriore deterioramento quantitativo e qualitativo, occorre intervenire senza ulteriori indugi e senza mezze misure».

In una lettera a Pierluigi Ciocca, Baffi il 13 ottobre 1981 scrive: «Caro Dottor Ciocca, […] se il debitore Stato destina il provento dei prestiti alla copertura di spese correnti, l’intenzione di risparmio delle famiglie viene frustrata sul piano sociale; in termini di accumulazione, il risparmio abortisce”. (dall’Archivio storico della Banca d’Italia, Carte Baffi, Governatore onorario)

A cascata, ogni provvedimento deve seguire il principio baffiano, per cui va data la massima priorità a:

1) Investimenti in progetti infrastrutturali (non il Ponte sullo Stretto di Messina!), per prevenire il dissesto idrogeologico; a favore del “rammendo” delle periferie (Renzo Piano docet). Non certo più autostrade, ma edilizia scolastica e meccanismi premiali per favorire il miglioramento della qualità della didattica. Il focus devono essere gli studenti, non gli insegnanti, puntando sulla misurazione/comparazione dei risultati delle diverse scuole (vedasi “La ricreazione è finita” di Abravanel e D’Agnese);

2) Radicale spending review. Secondo l’ex commissario alla spending review Enrico Bondi (che ne sa parecchio), in molte situazioni, non si deve parlare di riqualificazione della spesa, bensì di azzeramento della stessa per manifesta inutilità;

3) Riduzione del perimetro statale, che intermedia troppo. Il passaggio tasse-Stato-redistribuzione ha dimostrato di non funzionare. La spesa pubblica non deve essere una variabile indipendente;

4) Aiutare veramente chi è in situazioni di disagio. Se la spesa corrente finanzia il sistema pensionistico retributivo (30 miliardi di sussidi annui anche a chi ha altri redditi) e non chi ha veramente bisogno, andiamo nella direzione sbagliata, verso un sistema estrattivo (vedasi “Why Nations fail”, Acemoglu e Robinson) e non inclusivo. Il presidente dell’INPS Tito Boeri rileva che solo 3 euro su 100 della spesa assistenziale va a chi è in stato di povertà.

Gli Stati Uniti sono usciti dalla recessione nel 2009 spingendo gli investimenti e la spesa pubblica portando il deficit/Pil al 12,6%, ben superiore al 3%, limite fissato nel Trattato di Maastricht. Il fatto è che negli Stati Uniti, dopo un aumento della spesa pubblica corrente, sono in grado di tagliare e di tornare all’ordinario.

In Italia una volta che si assume un dipendente pubblico o si compie una spesa straordinaria, dopo poco diventa strutturale e non si riesce più a tagliare alcunché.

Nella citata Nota di Aggiornamento, come volevasi dimostrare, la spesa corrente – al netto degli interessi – passa da 697,1 del 2015 a 735,5 miliardi di euro del 2019. Nell’audizione parlamentare il vicedirettore generale della Banca d’Italia Luigi F. Signorini, saggiamente, ha ribadito che «la clausola di flessibilità è concepita con l’obiettivo di accrescere le spese per investimenti pubblici, in quanto ritenute particolarmente idonee a rafforzare il potenziale di crescita dell’economia».

La crescita della spesa pubblica corrente è la vera malattia endemica della Nazione.

Twitter @beniapiccone