Le banche, la vigilanza altrui e le terminazioni nervose del nostro portafoglio

scritto da il 31 Dicembre 2015

La questione dei famosi subordinati azzerati è ormai indirizzata verso una soluzione politica (un fondo con cui rimborsare alcuni obbligazionisti selezionati in base a criteri politici di “sensibilità”). Resta da vedere cosa discenderà dalla via giudiziaria, ché accanto ai casi clamorosi mi aspetto una ampia gamma di gradazioni di “sprovveduti speculatori”. Parallela corre l’indagine sulle origini dei dissesti, la mala gestio che ha reso l’attivo delle banche tanto fragile da portarle al default. Da qui, secondo la narrazione comune, le conseguenze negative sul passivo delle banche.

Ma il nesso causale può essere visto anche all’inverso: una fragilità dell’attivo conseguente alle gestione del passivo. Il passivo sono i soci e i creditori, tutti soggetti interessati alla buona conduzione degli affari affinché il valore del loro patrimonio (azione, obbligazione, deposito bancario) si mantenga nel tempo.

Questo specifico (e ben condivisibile, ancorché di natura avidamente economica) interesse dovrebbe stimolare un certo controllo sull’operato del management degli istituti, che in caso di insoddisfazione andrebbe a concretizzarsi in forma “tecnica” (i soci votano in sede assembleare) o “con i piedi” (i depositanti che cambiano banca).

La paura di queste reazioni dovrebbe spingere i soci più sensibili ad una verifica della “sana e prudente gestione”, e tale pressione dovrebbe selezionare i comportamenti del management. Tra l’altro un controllo fattivo non si sostanzia necessariamente in uno “studio” individuale delle condizioni della banca da parte di ogni singolo depositante / obbligazionista, ma può aver semplicemente la forma di herd behaviour (movimento in gregge) dietro a pochi soggetti/analisti influenti (anche in Borsa, il mercato più reattivo esistente, i movimenti generali possono conseguire al riposizionamento di uno o più soggetti riconosciuti come meglio informati).

Questo non elimina il rischio imprenditoriale derivante da errori, congiuntura, concorrenza e quant’altro, e quindi non azzera le possibilità di default. Però eviterebbe certi sospetti e polemiche in un settore oltretutto fortemente regolamentato e con una “libertà d’ingresso” più teorica che effettiva.

Schermata 2015-12-31 alle 12.38.51Se il controllo da parte dei più interessati alla “solidità” viene a mancare, necessariamente la gestione diverrà più opaca, spregiudicata, o semplicemente miope. Ma è un fatto che, data la sensibilità dell’economia al settore bancario e la sensibilità di questo agli aspetti reputazionali, si sia da sempre operato per mantenere un elevato senso di fiducia se non nel management almeno nel ritorno dei denari a vario titolo forniti agli istituti. Il rischio di non rivedere il proprio investimento (in azioni e obbligazioni varie) o il parcheggio dei propri risparmi (obbligazioni e depositi) è stato finora sostanzialmente annullato da politiche di salvataggio sostanziatesi in risanamenti o incorporazioni.

Se non c’è rischio, gli istituti si distinguono soltanto per i ritorni che consentono (o i tassi che praticano) e per questioni di “prossimità” geografica o politica (e qui si apre la questione delle banche del “territorio”). Se si perde la sensazione del rischio, perde rilevanza anche la coscienza della forma tecnica della propria partecipazione al destino dell’impresa (per poi scoprirsi speculatori “a nostra insaputa”).

Se non c’è rischio, non occorre un controllo per prevenire eventi rischiosi. E se non c’è controllo…

Per questo il default delle famose quattro banche dovrebbe insegnarci che non esiste una vera gerarchia tra i problemi dell’attivo e del passivo bancario, ma che i problemi di governance e sorveglianza vanno affrontati complessivamente, o meglio organicamente (il portafoglio è uno degli organi vitali con il maggior numero di terminazioni nervose!).

È vero che esistono enti, Banca d’Italia e Consob, preposti a certi controlli. Sulle loro responsabilità c’è una partita tutta da giocare, ma non mi aspetto particolari sorprese: c’è differenza di fattività ed utilità tra controlli formali e controlli sostanziali: i secondi non possono essere tempestivi ed adeguatamente “mirati” se mancano più precise “segnalazioni” dal basso.

Certe informazioni sono caratterizzabili come “conoscenza di circostanze particolari di tempo e luogo”, e sono possedute anzitutto da chi giorno per giorno lavora con e per quegli istituti. Gli enti di controllo sono importanti in un mercato, ma altrettanto – forse di più – è importante un controllo da parte del “mercato” stesso inteso come tutte le persone che commerciano con il soggetto da controllare.

Anestetizzare il mercato affidandosi ciecamente ad enti “superiori” è una delle tante “presunzioni fatali” dei nostri tempi.

Vedere che alle conseguenze politicamente “sensibili” dei default bancari si continua a rispondere con denaro pubblico (almeno per parte degli obbligazionisti) e con ulteriori norme (escludere senza eccezioni i bond subordinati dall’offerta retail) mi fa pensare che la politica non intenda cambiare corso e che preferisca, caparbiamente e fino all’ultimo, sedare i meccanismi di mercato.

La normativa sul bail-in, figlia essenzialmente del venir meno di risorse pubbliche per salvare tutti (alla fine è l’economia a indirizzare le scelte, specialmente dopo che le alternative hanno mostrato la corda), dovrebbe gioco-forza costringere tutti noi clienti e creditori a esercitare un qualche controllo, o almeno prestare orecchio a chi professionalmente svolge controlli ed analisi.

È una evoluzione necessaria, dati i tempi. È un aspetto che le banche dovranno curare (e comunicare) con attenzione, e che gli enti di controllo dovranno incentivare… salvo che il genio dei nostri legislatori non si sostanzi in nuove soluzioni che aggirino coinvolgimenti troppo ampi – e politicamente costosi – in caso di default bancari, continuando così a sedare il mercato per un nuovo giro di giostra.

Twitter @LBaggiani