Non temete la concorrenza dei robot, lavoreranno per noi

scritto da il 04 Agosto 2016

La recente bozza di proposta, a firma dell’Europarlamentare Mady Delvaux,  che mira a considerare i robot più sofisticati come “persone elettroniche” e, pertanto, da assoggettare al pagamento di tasse e contributi previdenziali, ha sollevato molte reazioni, alcune sarcastiche, altre meno. Nella mozione si sostiene che le imprese in grado di ridurre la forza lavoro e di sostituirla con automi, dovrebbero rendicontare l’incidenza di queste macchine intelligenti sulle performance dell’azienda, in modo da poter individuare il surplus generato dalla sostituzione uomini/macchine e sottoporre lo stesso a tassazione/contribuzione obbligatoria. Il gettito dovrebbe essere poi utilizzato per finanziare un reddito minimo universale che ammortizzi gli effetti della disoccupazione generata dai robot.

Al di là dei contenuti della proposta, che possono sembrare per alcuni versi bizzarri o quantomeno prematuri, il dibattito tra le righe è molto popolare e, probabilmente, sarà sempre più oggetto non solo di studi accademici, ma anche delle prossime campagne elettorali.

Più tecnologia significherà meno occupazione?

In realtà non siamo nella prima epoca in cui il dilemma amletico viene alla luce, ma fino ad oggi la risposta si è rivelata, nei fatti, negativa. In un recente paper (sintesi qui) Acemoglu e Restrepo sostengono che molti economisti del passato (dal “technological unemployement” di Keynes-1930, a Leontief -1952 e Heilbroner-1965) abbiano commesso vari errori, prevedendo danni irreversibili che il progresso tecnologico avrebbe dovuto causare all’occupazione.

Gli autori del paper cercano di dimostrare due idee: 1) storicamente una serie di mansioni effettuate dagli umani sono state sostituite dalle macchine, ma simultaneamente si sono create nuove opportunità di lavoro; 2) le nuove opportunità di lavoro hanno riguardato soprattutto le mansioni più complesse, dove il fattore umano è in una posizione di vantaggio rispetto al capitale. Gli esempi vengono dalla storia. Le rivoluzioni industriali succedutesi nel tempo hanno “spazzato” via alcuni mestieri, ma hanno creato nuove opportunità per lavori più sofisticati nell’ingegneria ad esempio o, più recentemente, nelle figure chiave del management.

A conferma della tesi sostenuta dagli autori, dal 1980 al 2007 l’occupazione totale negli Usa è cresciuta del 17,5%. La metà di questa crescita è dovuta a nuovi tipi di lavoro che precedentemente non esistevano. Altre evidenze più recenti possono essere rinvenute in Germania ad esempio, dove nel settore automobilistico – nonostante una crescita nell’utilizzo di robot industriali pari al 17% – l’occupazione è cresciuta del 13%.

Ma come fanno i due tassi di crescita a controbilanciarsi? Secondo gli autori ci sono delle forze di stabilizzazione, tramite le quali la rapida crescita dell’automazione finisce per auto-correggersi. Infatti, se l’automazione può essere più profittevole rispetto al lavoro umano, contemporaneamente diventerà più profittevole la creazione di nuovi lavori, sempre più complessi, in grado di generare ulteriore automazione. Di conseguenza, l’economia tornerà in equilibrio, così come lo era prima della novità tecnologica. Tuttavia, le conseguenze per i lavoratori potrebbero essere anche meno favorevoli nel caso in cui le innovazioni robotiche dovessero diventare più facili da raggiungere, senza la necessità di creare nuovi tipi di lavoro. In quest’ultimo scenario si raggiungerebbe un nuovo equilibrio, ma a discapito del lavoro umano.

Chi vince e chi perde

Ma ipotizziamo che la storia si ripeta e che l’equilibrio più auspicabile continui a prevalere, senza causare crolli nel tasso di occupazione. Chi perderebbe comunque? Una maggiore robotizzazione accrescerebbe la spaccatura non tanto tra ricchi e poveri, ma tra i lavoratori qualificati e non qualificati (dicotomia che potrebbe comunque dipendere dai redditi di partenza). Chiaramente i robot tenderanno sempre più a sostituire i lavoratori “unskilled”. Risulta inevitabile che pian piano molti lavori potrebbero scomparire, come quello dei cassieri nei supermercati o ai caselli autostradali (ma anche alcune professioni intellettuali come l’avvocatura o il giornalismo sono a rischio di rivoluzione). Altro effetto indesiderato della robotizzazione potrebbe essere, per molte categorie, una decrescita salariale. Per alcuni versi il fenomeno è simile a quello della delocalizzazione delle produzioni nei luoghi dove il costo del lavoro è più basso.

Ma non tutto è negativo. Innanzitutto laddove c’è grande crescita tecnologica, anche le categorie di lavori tradizionali possono tarne vantaggio. Nella Silicon Valley ad esempio, ogni nuovo lavoro nell’High-Tech può generare 5 posti di lavoro nei servizi locali (camerieri, tassisti, avvocati, medici etc.). Il moltiplicatore dell’High-Tech è tre volte maggiore rispetto a quello dei lavori tradizionali. Dove si garantirà la presenza di imprese innovative che assumono lavoratori ad alto capitale umano, anche le persone unskilled troveranno maggiori opportunità. Altrove, queste ultime faticheranno di più.

Ma cosa si può fare per gli sconfitti dal processo tecnologico o dalla globalizzazione? Come guidare la transizione? In molti stati cresce il dibattito sul reddito minimo universale (nelle sue diverse etichette), definito ironicamente una sorta di “capitalist road to communism”. Pur muovendo spesso da sinistra, la proposta intriga anche alcuni ambienti liberali, dalla negative income tax di Milton Friedman ad analisi politiche  come questa del think tank “The Cato Institute”. Abbiamo già assistito al referendum svizzero (seppur bocciato) e il dibattito cresce anche in Finlandia ed Olanda, oltre che in Italia come noto. Le motivazioni di base possono essere anche condivisibili, ma ci sono molti ostacoli. In primis i costi, “chi paga”? Far pagare le “persone elettroniche” non significherebbe altro che far pagare la misura di welfare alle imprese più innovative, il contrario di ciò che si dovrebbe fare. Un’altra strada sarebbe quella di agire sulla spending review, che però potrebbe risultare recessiva se troppo drastica. Meglio sarebbe puntare su una riforma dei sistemi attuali di welfare, con il superamento di tutte le misure attualmente erogate ai disoccupati.

Ma oltre al problema del funding vi è quello degli incentivi. Deve essere chiaro che se la misura di welfare dovesse garantire il medesimo trattamento economico di un posto di lavoro, si continuerebbe a cadere dritti nella “trappola della povertà” e si incentiverebbe la disoccupazione. Inoltre, vi è anche un aspetto psicologico di cui tenere conto. Alcune analisi dimostrano che durante l’ultima recessione, gli americani licenziati spendevano metà del loro tempo a dormire o a guardare la televisione. Più tempo si sta fuori dal mercato del lavoro, più difficile sarà il reinserimento.

Il dibattito è quindi aperto, ma tanti sono gli ostacoli per non cadere (nuovamente) in un assistenzialismo inefficiente.

Bye bye alienazione

Per concludere, vi è un altro aspetto positivo della robotizzazione, forse troppo poco considerato. Più robot ci saranno nelle nostre vite quotidiane, meno robotizzati saremo noi umani. Quanto tempo è passato da quando Karl Marx denunciava l’alienazione dell’operaio a causa di un lavoro ripetitivo, sempre uguale – meccanico appunto – paragonandolo alla figura del mitologico Sisifo? Negli ultimi secoli l’umanità ha fatto dei passi da gigante, grazie anche al progresso tecnologico. Quanti lavori “alienanti” sono stati sostituiti dalle macchine? E quanti ancora verranno sostituiti? Pensate solo alle fatiche dei nostri antenati in campo agricolo. Se da un lato è giusto preoccuparsi di chi risulta sconfitto dalla rapidità del processo di transizione trainato dalla tecnologia, dall’altro potrebbe emergere sempre più un mondo di opportunità lavorative maggiormente creative, più stimolanti e nel quale il capitale umano divenga la nostra risorsa più preziosa da sfruttare e sulla quale investire.

I robot lavoreranno per noi, come già fanno da un bel po’. Non temiamoli, ma soprattutto non tassiamoli.

Twitter @frabruno88