Cosa manca alla riforma della dirigenza pubblica

scritto da il 05 Settembre 2016

Lo schema di decreto legislativo sulla dirigenza pubblica è finalmente arrivato. Non si tratta ancora di un testo definitivo, dovendo ancora passare “l’esame” del Parlamento, del Consiglio di Stato e della Conferenza Stato-Regioni, ma ci consente di capire le intenzioni del Governo.

Cassese-Bassanini-Brunetta e adesso Madia sono i quattro nomi fondamentali accostati alle omonime riforme della PA, intervenute dagli anni ’90 in poi, che hanno tentato (e stanno tentando) di modernizzare ed efficientare il funzionamento dell’amministrazione pubblica italiana, elemento cruciale per una stabile crescita economica.

La riforma della dirigenza pubblica rappresenta un tassello importante, tra i più decisivi forse, ed era per tal ragione molto attesa. Occorre dunque provare a capire se il testo partorito dall’Esecutivo possa contribuire ad apportare un miglioramento delle performance dei dirigenti e, a catena, di tutti i dipendenti pubblici.

Incentivi e merito: gli errori del passato

Per capire se la riforma Madia possa avere successo, occorrerebbe prima comprendere cosa non abbia funzionato nei precedenti interventi legislativi. Da un punto di vista della teoria economica, ci aiuta in questo senso un recente working paper della Banca d’Italia, a cura di Roberta Occhilupo e Lucia Rizzica.

Come noto, uno dei tratti caratterizzanti la riforma dell’ex ministro Brunetta è il sistema delle valutazioni dell’operato dei dirigenti, gestito attraverso il Ciclo (triennale) di gestione della performance, con l’attività di controllo e verifica affidata a degli Organismi indipendenti di Valutazione (OIV).

A sette anni dal D.Lgs. n. 150/2009, nonostante le lodevoli intenzioni, i risultati prodotti sono stati inferiori alle attese.

A riprova di ciò, il paper citato contiene un’analisi empirica delle retribuzioni di merito conferite ai dirigenti pubblici nel 2012. Per quanto concerne i dirigenti ministeriali di prima fascia, lo studio mostra un sostanziale appiattimento delle retribuzioni di risultato, con variabilità tendente al nullo all’interno del singolo ministero. La variabilità aumenta in alcuni ministeri per i dirigenti di seconda fascia (giustizia, infrastrutture e istruzione), mentre è pressoché nulla in altri (MEF e lavoro ad esempio).

Passando alle regioni, innanzitutto si rileva che il peso della retribuzione di risultato è più alto rispetto a quello dei dirigenti ministeriali, così come è più alta a livello regionale la retribuzione media complessiva. Sulla variabilità, i risultati della regressione compiuta dalle autrici dimostrano che la principale determinante della retribuzione di risultato è stata l’età anagrafica. I parametri meritocratici, come l’aver conseguito titoli di studio post lauream o la conoscenza di lingue straniere o le competenze tecniche, non hanno inciso sulla componente di risultato percepita.

La bassa o nulla variabilità suggerisce una deduzione molto semplice: a livello statale e regionale la retribuzione di risultato è divenuta una mera parte della retribuzione complessiva, indifferente ai criteri di merito.

Analizzando le cause dell’insuccesso, le autrici sottolineano in primo luogo un’incorretta separazione tra le attività politiche e quelle operative, a danno dell’autonomia e indipendenza dei dirigenti pubblici e a differenza, ad esempio, di quanto avviene nel Regno Unito con la separazione tra dipartimenti (a indirizzo politico) e le agenzie indipendenti. Vengono poi evidenziati tre fattori strutturali che hanno contribuito all’insuccesso della riforma (oltre all’inadeguatezza qualitativa e numerica degli OIV): 1) la rigidità e la farraginosità delle regole disciplinanti il sistema di valutazione; 2) la circostanza che la valutazione dei dirigenti si pone alla fine del Ciclo summenzionato, risentendo quindi delle carenze delle fasi precedenti (carenze nella definizione degli obiettivi, nell’assegnazione degli stessi alle strutture e incoerenze con la programmazione finanziaria); 3) la scarsa autonomia dei dirigenti.

Negli anni passati sono stati imposti crescenti obblighi giuridici che ingessano l’attività del dirigente e che lo ingabbiano in una miriade di procedure, impedendogli di lavorare sullo sviluppo del capitale umano (anche perché non ci sono risorse per assegnare premi ai meritevoli).

La riforma Madia aiuterà a superare i problemi attuali?

I punti forti su cui punta il Governo sono principalmente: a) il superamento della divisione tra fasce (ruolo unico), b) la temporaneità degli incarichi (quattro anni prorogabili solo una volta per altri due anni), c) la competizione nella fase di selezione tra gli iscritti al Ruolo e d) la formazione delle “Commissioni per la dirigenza pubblica”.

Il Governo vuole tentare la carta della competizione, attraverso il superamento dell’incarico fisso. Tutti i dirigenti (vincitori di concorso) verranno immessi in un calderone con le amministrazioni che cercheranno di accaparrarsi i migliori. Idea suggestiva, ma chi saranno i “migliori”? Quali sono le novità in termini di meritocrazia?

Dal punto di vista del Sistema delle valutazioni non risulta stravolto l’impianto della riforma Brunetta. Infatti viene mantenuto il primo comma dell’art. 21 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, che collega gli obiettivi di risultato dei dirigenti con il Sistema di valutazione vigente, ma viene aggiunta una seconda parte nello stesso articolo che definisce meglio cosa si dovrà intendere per mancato raggiungimento degli obiettivi. Si va dalla valutazione negativa della struttura di appartenenza (e in tal caso si valuterà anche la reiterata omogeneità delle valutazioni del personale) al mancato controllo sulle presenze, alla mancata rimozione di fattori causali di illecito e al mancato rispetto delle norme sulla trasparenza e dei tempi della programmazione.

La grande fiducia del Governo è poi riposta nelle nuove Commissioni. La prima, competente per la dirigenza statale, sarà indipendente ma incardinata presso il Dipartimento della Funzione Pubblica e avrà il compito di: a) nominare le commissioni per l’esame di conferma dei vincitori dei concorsi;  b) definire i criteri generali per il conferimento degli incarichi dirigenziali e di verificarne il rispetto anche nel caso di revoca degli stessi; d) procedere alla preselezione dei candidati ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali generali; e) effettuare la valutazione di congruità successiva delle scelte effettuate dalle amministrazioni per gli altri incarichi; f) esprimere  parere sui provvedimenti inerenti la responsabilità dirigenziale e  sulla decadenza dagli incarichi in caso di riorganizzazione.

Si tratta di oneri molto gravosi, sulle spalle di un collegio di appena sette membri che già hanno incarichi rilevanti, come il Presidente dell’ANAC Cantone (che dobbiamo sperare sia dotato del dono dell’ubiquità), il Ragioniere generale dello Stato, il presidente della Conferenza dei Rettori o il Segretario generale della Farnesina. Chiaramente la Commissione dovrà delegare ad altri soggetti gran parte delle funzioni, considerato che i primi tre membri elencati saranno presenti anche nelle Commissioni regionali e locali.

Si ha come l’impressione, ancora una volta, che saranno introdotte alcune buone intuizioni, qualche spunto di miglioramento interessante, ma in un contesto non ancora omogeneo e troppo frammentato. Alcuni sostengono che la temporaneità degli incarichi renderà vane le valutazioni, ma in realtà la sana competizione potrà essere innescata solo se il sistema di valutazione funzionerà. E al momento non si vedono i perfezionamenti normativi e di incentivazione affinché questo possa accadere. Non ci sono consistenti migliorie al procedimento di valutazione del merito ideato dall’ex ministro Brunetta né, contemporaneamente, ai processi che avrebbero dovuto liberare l’energia positiva dei manager competenti da una regolamentazione eccessiva e strangolante. L’ingessatura rimane, su alcuni aspetti aumenta, allontanando l’efficienza. Fortunatamente però c’è ancora spazio per migliorare il testo e non disperdere alcune innovazioni positive che potrebbero accrescere l’efficienza del sistema.

Infine una considerazione di carattere generale. La strada per diventare dirigenti si allunga e si fa più tortuosa (dopo il concorso e la formazione serviranno tre anni da funzionari pubblici). La sensazione è che – a causa (tra le altre cose) di tempi lunghi, responsabilità amministrative e penali dietro ogni angolo etc. – i veri talenti preparati e adatti a dirigere rimarranno alla larga dal settore pubblico dove di conseguenza, parafrasando il premio Nobel Akerlof, resteranno sempre più limoni” pagati a caro prezzo.

Twitter @frabruno88