Perché è più facile spendere per le pensioni che investire sui giovani

scritto da il 26 Ottobre 2016

Tra gli argomenti maggiormente divisivi legati allo schema di legge di bilancio presentato dal Governo, vi è l’iniqua ripartizione di risorse fra giovani e pensionati, fonte di recenti polemiche anche fra il presidente dell’INPS Tito Boeri e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.

In attesa dei testi, i numeri presentati prevedono l’impiego di 7 miliardi nei prossimi tre anni per il pacchetto pensioni, a fronte di  700 milioni (fondi europei) per agevolare le assunzioni giovanili tramite sgravi contributivi e di 1 miliardo per scuola e università. Considerato che già la spesa pensionistica viaggia verso i 300 miliardi l’anno, sono in molti ad intravedere una miopia di fondo nelle scelte dell’Esecutivo.

Secondo il Global Youth Development Index and Report, insieme alla Spagna ed al Giappone condividiamo il primato della minor percentuale di giovani sul totale della popolazione (15%). Lo stesso Index (che si basa su 5 indicatori “Education, Health and Well-being, Employment and Opportunity, Political Participation and Civic Participation”) ci vede al 37° posto del ranking. Nelle prime dieci posizioni ci sono otto Paesi Europei, ben sette dei quali appartenenti all’Unione Europea (includendo ancora il Regno Unito). Facciamo bene su salute e benessere (10° posto), male nell’istruzione (38° posto), molto male (67° posto) nella sezione dell’occupazione e delle opportunità di lavoro.

Nonostante ciò, l’azione dei vari governi che si sono avvicendarti nel tempo continua a focalizzarsi maggiormente sulle pensioni. Perché? Pensando in maniera “andreottiana”, verrebbe da guardare ai milioni di elettori pensionati che sicuramente sono molto attenti al trattamento riservato loro dal Governo nella cabina elettorale. Ma la spiegazione peccherebbe di semplicismo e di poca eleganza nei confronti di tante persone che hanno lavorato un’intera vita.

La differenza sostanziale risiede nel fatto che le misure in favore dei pensionati sono sostanzialmente facili da adottare, essendo mere scelte redistributive. L’unico ostacolo (non piccolo) è dato dal reperire le risorse, dopodiché si deve meramente scegliere la platea e si ottengono immediatamente i risultati sperati: la soddisfazione dei destinatari e (per gli ottimisti) anche effetti sui consumi. Di contro, le misure a favore dei giovani sono molto più complicate e, soprattutto, producono risultati solo nel medio-lungo termine. I politici sono maestri nel redistribuire risorse, ma fanno molta più fatica quando serve implementare cambiamenti strutturali, dove non basta avere un budget. Ecco perché spesso vediamo politiche giovanili simili a quelle per le pensioni, come nel caso dei bonus ai diciottenni.

La complessità delle politiche attive per i giovani: il caso danese

La disoccupazione giovanile in Italia è molto alta, pari quasi al 40%, meglio solo di Grecia e Spagna all’interno dell’Ue. Tra i casi di studio solitamente annoverati tra gli esempi positivi di politiche che favoriscono la crescita e l’integrazione dei giovani nel mondo del lavoro vi è quello della Danimarca, che ha un tasso di disoccupazione giovanile pari al 10,2% (2015), dietro in Europa alla sola Germania, e che ha resistito meglio di altri alla recessione causata dalla Crisi del 2008. Rappresenta inoltre un modello interessante poiché tra i precursori di un’idea di flexicurity del mercato del lavoro, che dovrebbe combinare le virtù di un’economia liberale alle protezioni del welfare state e provare a soddisfare due diverse esigenze: da un lato la libertà dell’imprenditore di assumere e di licenziare, dall’altro favorire l’inserimento o il reinserimento nel mercato dei disoccupati attraverso misure di sostegno economiche e politiche attive. È lo stesso auspicio di fondo che ha ispirato l’emanazione del Jobs Act.

Aiutandoci con i risultati di questo breve studio, si intravede come il sistema danese sia molto focalizzato sui giovani poco qualificati, ritenuti l’anello debole del mercato del lavoro, per i quali vengono previste numerose opportunità di formazione professionale. Si tratta poi di un sistema caratterizzato da una serie di sostegni economici per i giovani privi di un’occupazione. Ad esempio ci sono coloro che beneficiano di un assegno (assicurazione) per la disoccupazione e che sono tenuti a cercare attivamente lavoro ed a sottoporsi a colloqui lavorativi, allo stesso modo dei disoccupati adulti. Mentre questi ultimi devono obbligatoriamente attivarsi nella ricerca di un’occupazione dopo sei mesi di beneficio, per gli under 30 il termine si riduce a tre mesi. Per gli under 24 il beneficio si dimezza invece dopo sei mesi, con l’intento di incentivarli verso un ritorno a programmi di istruzione. Anche i neo-laureati privi di esperienze lavorative possono ricevere un supporto, pari all’82% dell’importo normale.

La tendenza che guida le dinamiche del ruolo pubblico mira a mantenere tutti i beneficiari costantemente attivi e dinamici. Ad esempio i disoccupati under 25 che non hanno completato la scuola secondaria, sono sottoposti a ripetuti test di scrittura, lettura ed aritmetica. Se i test producono risultati negativi, i ragazzi son tenuti a partecipare a specifici training.

In Danimarca è anche basso il numero di NEET, per almeno tre ragioni: a) una lunga tradizione di una effettiva “garanzia giovani” mirata all’inserimento o al reinserimento di giovani disoccupati attraverso politiche attive che risale agli anni ’90; b) un funzionante sistema duale scuola-lavoro, tirocini e occupazioni part-time per gli studenti; c) una bassa protezione legislativa per i lavoratori adulti che favorisce l’ingresso dei giovani nel mercato.

Il caso Italiano

Come si può evincere dal paragrafo precedente, è tutt’altro che semplice importare un modello similare nella nostra realtà. La flexicurity è un lungo processo, che in Danimarca è stato favorito da un’idea di welfare state sicuramente molto costosa, ma con un’attenzione particolare verso il mondo dei giovani, a costo di qualche sacrificio dei più adulti.

Nel caso italiano sussistono delle differenze strutturali, difficili da colmare nel breve periodo. Ad esempio la flessibilità in uscita è in Italia solo parziale, si applica solo ai nuovi contratti ed al settore privato. In secondo luogo le risorse stanziate sono spesso insufficienti, perché le politiche attive hanno un costo non solo di erogazione iniziale, ma anche di controllo e monitoraggio. Abbiamo infatti la malsana abitudine di distribuire fondi incondizionatamente e senza monitorare i risultati ottenuti, non capendo il ruolo fondamentale che giocano gli incentivi, né gli errori commessi che dovrebbero servire per migliorare le policy future. Dulcis in fundo, abbiamo un enorme problema di istruzione che ci differenzia dal caso danese.

Confrontando le schede di Italia e Danimarca allegate al report dell’OCSE Education at a Glance 2016,  si possono osservare una serie di differenze. In Italia la spesa pubblica per l’istruzione è diminuita del 14% tra il 2008 e il 2013, a fronte di una diminuzione negli altri servizi pubblici inferiore al 2%. La spesa pubblica totale per l’istruzione nel 2013 è stata pari al 4% del PIL, con una media OCSE pari al 5,2%. La scheda puntualizza che la minore spesa per l’istruzione non è tanto dipesa dalla stretta ai conti pubblici. Nel 2013 abbiamo speso per l’istruzione il 7% della spesa pubblica totale, percentuale maggiore solo all’Ungheria tra i Paesi facenti parte dell’OCSE. La spesa per studente di scuola primaria e secondaria è diminuita del 14% sempre tra il 2008 e il 2013, mentre quella per studenti universitari è aumentata del 4% principalmente a causa di una riduzione del numero di studenti pari al 7%. Si tratta quindi di scelte politiche nell’allocazione delle risorse.

Di contro, la Danimarca è tra i Paesi con la più alta spesa pubblica per istruzione dell’area OCSE (6,4% del PIL, in aumento rispetto al 5,8% del 2008). A differenza dell’Italia, il sistema universitario danese attrae molti studenti internazionali e ciò ha portato nello stesso periodo ad un aumento delle iscrizioni pari al 25%. Il 12,8% della spesa pubblica totale danese è dedicata all’istruzione.

Dalla miopia al rischio cecità

Ci sarebbero tanti altri dati da mostrare, soprattutto sul passaggio scuola-lavoro, ma il trend appare chiaro. Il confronto non serve ad esaltare il modello danese come un paradiso terrestre, ma a capire che la strada della flexicurity non è per nulla immediata e che necessita di tante e costose politiche attive ben gestite. Ma alle nostri classi dirigenti tutto questo non importa o importa poco, poiché non se ne riesce a decifrare l’assoluta priorità per il nostro futuro. Il problema non viene affrontato di sana pianta, perché trattasi di un lungo e faticoso cammino da intraprendere che, si ribadisce, necessita di pazienza per mostrare risultati significativi, in quanto non basterebbe aumentare i fondi senza prima strutturare le fondamenta per colmare il divario. Ecco perché è molto più semplice e immediato agire su altre voci, come le pensioni appunto.

E nel disincanto generale, con riferimento al nostro sistema di istruzione che ha il dovere di formare gli italiani di domani e di prepararli alle sfide della competizione globale, ti ritrovi a leggere le dichiarazioni di Andreas Schleicher, education director dell’OCSE, talmente pesanti da far fatica a tradurle e che lasciano, come unica reazione istintiva, quella di screditare l’autore, l’istituzione per cui lavora o la generalizzazione un po’ esagerata da egli compiuta. Ma sarebbe solo una magra consolazione.

«When it comes to advanced literacy skills, you might be better off getting a high school degree in Japan, Finland or the Netherlands than getting a tertiary degree in Italy, Spain or Greece».

Twitter @frabruno88