La sfida epocale dell’immigrazione e l’irriverenza di Bello FiGo

scritto da il 13 Dicembre 2016

Nella lettera inviata alla Commissione Europea lo scorso 27 ottobre, Pier Carlo Padoan spiegava, tra le varie voci, i costi dell’emergenza migranti affrontati dall’Italia. Fino a quella data sono state 156.705 le persone salvate nel 2016, superiori al numero totale dei salvataggi effettuati nel 2015, il triplo rispetto al 2013 e sulla scia del picco raggiunto nel 2014. Una spesa di 3,3 miliardi di euro nel 2016 (superiore di circa il 360% rispetto al 2011), che potrebbe salire fino a 4,2 miliardi nel 2017.

Si tratta di numeri importanti, in uno scenario complessivo preoccupante che denota carenze sia a livello europeo sia italiano che possiamo provare ad esaminare.

Il (debole) piano dell’Unione Europea

Il bilancio dell’Unione Europea per il 2017 prevede un incremento delle risorse stanziate per rinforzare i confini esterni e per affrontare l’emergenza dei rifugiati, per un importo complessivo di circa sei miliardi di euro (meno del doppio delle risorse stanziate dall’Italia). Le misure più importanti intraprese dalla Commissione riguardano essenzialmente l’accordo con la Turchia e il meccanismo di ricollocazione infra-UE.

Quest’ultimo, fin adesso, si è rivelato un semi-fallimento. Come noto, in base al Regolamento di Dublino spetterebbe al Paese dove approda il migrante la cura delle richieste di asilo pervenute da chi varca irregolarmente i confini europei. Tra il 2014 e il 2015, sono arrivate in Europa irregolarmente 1,3 milioni di persone, la maggior parte attraverso Grecia (900 mila) e Italia (150.000). Chiaramente, il peso sulle spalle dei due Paesi mediterranei era (ed è) eccessivo.

Per tale ragione, la Commissione ha deciso che una quota di questi richiedenti asilo – pari a 160 mila siriani, iracheni ed eritrei – dovesse essere ricollocata presso gli altri Stati Membri in base a quattro parametri (PIL, popolazione, tasso di disoccupazione e numero di rifugiati accolti nei quattro anni precedenti). Per ogni rifugiato accolto, il Paese ospitante riceve 6 mila euro (budget UE). I dati aggiornati al 6 dicembre, indicano che solo 8.162 persone sono state ricollocate in Paesi diversi da quelli di arrivo. L’Italia ne ha ricollocati solo 1.950. Con questo ritmo, servirebbero decenni per ricollocare la quota prevista, che già di per sé rappresenta una minima parte del totale degli arrivi.

Un meccanismo che incontra ostacoli logistici e burocratici, ma – soprattutto – politici. I leader osservano i vari risultati elettorali e ne deducono che chi sventola la bandiera dell’anti-immigrazione ha, al momento, una marcia elettorale in più.

Se gli incentivi politici propendono per il fallimento del piano europeo, si potrebbe pensare a degli incentivi economici. All’interno di un recente e-book sul tema (i cui capitoli verranno spesso citati nel prosieguo), Fernández-Huertas Moraga sostiene che un limite nel piano della Commissione risieda nell’assenza di flessibilità. Per questo egli propone una serie di passi per rendere il meccanismo più efficiente.

In primo luogo, si potrebbe anche partire dallo schema di ripartizione elaborato dall’esecutivo europeo. Secondariamente, si dovrebbe introdurre un meccanismo di compensazione economica. Immaginando che un Paese ritenga che il costo marginale per ogni rifugiato aggiuntivo sia troppo alto, mentre di contro ci potrebbe essere uno Stato con un costo marginale basso o comunque minore: se il primo potesse compensare economicamente il secondo, quest’ultimo potrebbe essere disposto ad accogliere più rifugiati (ricorda un po’ il Teorema di Coase).

Ovviamente da un punto di vista etico-morale non sarebbe il massimo, ma di certo non peggiore rispetto all’accordo con la Turchia. Inoltre, si potrebbe comunque garantire il diritto di scelta del rifugiato. L’autore citato infatti propone che ogni rifugiato indichi una serie di Paesi in base alla sue preferenze (prima scelta, seconda scelta, etc.), specificando anche il Paese dove si rifiuterebbe di approdare. Queste preferenze verrebbero immesse in un algoritmo che decifrerebbe la ripartizione finale. I risultati, naturalmente, potrebbero anche non soddisfare le preferenze dei rifugiati. In tal caso, i Paesi con minori preferenze dovrebbero essere penalizzati economicamente (attualmente vi è una penalità di 250 mila euro per ogni rifugiato rifiutato), con le risorse trasferite al Paese di arrivo (ad esempio l’Italia)  che manterrebbe il rifugiato non ripartito altrove.

Ipotizziamo un successo della ripartizione con gli aggiustamenti summenzionati, basterebbe a risolvere i problemi? Forse no, perché il nodo cruciale concerne sempre l’integrazione dei nuovi arrivati nella società europea e il loro ingresso nel mondo del lavoro (si veda il cap. 3 nell’e-book citato che testimonia l’insuccesso dell’integrazione lavorativa dei rifugiati in Norvegia). Un altro problema riguarda poi la correlazione con il crimine, molto sentita dalla popolazione. Secondo Pinotti (cap. 7), nel 2010 in Italia gli immigrati rappresentavano il 35,6% dei detenuti. Naturalmente l’alta percentuale risente anche dello status di immigrati irregolari e proprio questi ultimi rappresentano il fulcro del ragionamento di Pinotti: l’irregolarità impedisce agli stessi la ricerca di un impiego regolare. Anche ai rifugiati ed ai richiedenti asilo è spesso proibita la ricerca di un lavoro per un certo periodo di tempo.

Mettere i nuovi arrivati in condizioni di lavorare ha un’importanza vitale per alleviare i problemi e per accrescere i benefici derivanti dall’immigrazione, nonché per evitare flussi di immigrazioni attratte dai vantaggi del welfare state piuttosto che dalla ricerca di un’occupazione.

E l’Italia?

L’Unione Europea, come detto, non sta affrontando bene l’aumento degli arrivi che si sta verificando negli ultimi anni. Ipotizziamo però che non esista l’UE. Gli sbarchi continuerebbero a verificarsi principalmente in Italia e in Grecia. Senza la libera circolazione delle persone, ci sarebbero le frontiere alle Alpi, quindi i problemi sarebbero solo nostri e sarebbero maggiori. L’immigrazione può comportare dei vantaggi nel lungo periodo, soprattutto in un Paese come il nostro alle prese con un invecchiamento della popolazione che provoca numerosi squilibri (ne parlava Beniamino Piccone su queste pagine), ma nel breve la disorganizzazione crea complicazioni.

Il primo problema riguarda i tempi dell’analisi della richiesta di asilo. Tali tempi, secondo il Presidente della commissione nazionale per il diritto di asilo Angelo Trovato, si starebbero accorciando. In un’audizione alla Camera dei Deputati dello scorso luglio, il Prefetto ha affermato che i tempi medi di esame di una richiesta sono ancora alti, 245 giorni per pratica, ma scorporando i dati si intravede un trend positivo, dai 322 giorni del 2014, ai 209 giorni del 2015 ed ai 75 del 2016. Poi però vi sono i tempi dei ricorsi giurisdizionali e dell’eventuale appello. Di conseguenza, passano anni prima che si giunga ad una decisione definitiva, senza che il richiedente asilo possa lavorare regolarmente. Va poi considerato che le domande spesso provengono da residenti di Paesi aventi situazioni non proprio compromesse, come il Pakistan (i cui residenti non arrivano attraverso gli sbarchi!). Ecco perché il non riconoscimento della protezione internazionale riguarda il 60% delle pratiche e, tra i ricorsi presentati, il 67% non viene accolto. Secondo il Commissario Avramopoulos l’80% dei migranti che giungono in Italia dal Mediterraneo Centrale sarebbero immigrati irregolari, non profughi.

Da qui discende l’assoluta necessità di accorciare i tempi del riconoscimento e di rimpatriare senza indugi chi mente all’arrivo, perché intasa il sistema di accoglienza con richieste di asilo ingiustificate e toglie risorse agli aventi diritto. Finché non miglioreremo questo aspetto, possiamo solo sperare che i risultati del programma di ricollocazione europeo diano frutti migliori di quelli attuali. Contemporaneamente, si dovrebbe poi rivedere la normativa sui migranti economici, che richiede un aggiornamento più rispondente alle esigenze del mercato del lavoro italiano ed alle dinamiche della popolazione.

Conclusioni

In una puntata del programma “Dalla Vostra parte” diventata (tristemente) virale, l’irriverente rapper Bello FiGo, seppur urtando la suscettibilità di molti per i suoi testi provocatori e il linguaggio trash, è riuscito a cogliere un punto importante: se gli italiani sono in difficoltà per la crisi economica, non è colpa dei profughi, idem per la piaga dei giovani disoccupati. Una banalità che spesso dimentichiamo, come dimentichiamo altresì quell’articolo 10, comma 3, della nostra Costituzione che ci deve sempre inorgoglire (eppure nelle ultime settimane sembravamo un popolo di costituzionalisti…).

D’altro canto però, non si può nascondere la testa sotto la sabbia della retorica e ignorare i problemi reali che le migliaia di arrivi mal gestiti possono generare. Ho sempre pensato che dietro la frase “Non sono razzista ma…” si nasconda quasi sempre una qualche forma di razzismo, anche celata. Ma bollare come razzista chiunque sottolinei dei problemi collegati ai numerosi arrivi verificatesi negli ultimi anni è sicuramente generalizzante, arrogante, superficiale e controproducente (anche in termini elettorali).

La sfida delle istituzioni italiane ed europee sarà quella di eliminare i “ma…”, in modo da smascherare le intolleranze mosse da pregiudizi razziali. In caso di fallimento, le conseguenze sociali potrebbero essere molto spiacevoli.

Twitter @frabruno88