L’Europa di Schengen in pezzi e la provocazione di Milton Friedman

scritto da il 03 Febbraio 2016

La messa in discussione dell’Euro era in qualche modo preventivabile: non è facile per una moneta essere popolare. Ma la messa in discussione di Schengen non era altrettanto semplice da prevedere.

Perché la libera circolazione delle persone, prima ancora di quella delle merci, è sempre stata vista come la vera grande conquista dell’Europa unita. Una conquista di civiltà, che allontanava un po’ dalla mente i nefasti scenari di sanguinose guerre combattute fino a pochi decenni prima tra i popoli del Vecchio Continente.

Ma adesso il contesto è notevolmente mutato e sembra che dilaghi ovunque una certa nostalgia per i confini nazionali.

In pillole: gli Accordi di Schengen

Schengen è un piccolo comune del Lussemburgo, divenuto famoso grazie all’Accordo con cui Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo hanno deciso di creare una libera area di circolazione delle persone, con la progressiva eliminazione dei controlli alle frontiere condivise.

A tale primo Trattato internazionale, seguì poi la Convenzione del 1990, alla quale aderirono altri Paesi, tra cui l’Italia. Ci volle il 1999, con il Trattato di Amsterdam, per l’inclusione degli Accordi all’interno della legislazione dell’Unione Europea.

Attualmente l’Area Schengen comprende 26 Paesi, 22 dei quali appartenenti all’Unione Europea e 4 esterni ad essa (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Bulgaria, Croazia, Cipro e Romania attendono di potervi entrare, mentre Regno Unito e Irlanda ne sono fuori.

Chi ha sospeso Schengen

Il Codice frontiere Schengen prevede la possibilità per uno Stato di reintrodurre temporaneamente i controlli in caso di “minaccia grave per l’ordine pubblico e la sicurezza interna”. Inoltre, il Reg. UE n. 1051/2013 prevede quest’opzione anche nei casi di gravi lacune nei controlli esterni all’Area, ma in tali situazioni l’iniziativa spetta agli organi UE (Consiglio e Commissione).

Nel periodo recente, diversi stati hanno sospeso l’applicazione degli Accordi, anche a seguito degli attentati di Parigi dello scorso novembre. Attualmente la sospensione è attiva in Austria, Danimarca, Francia, Germania, Norvegia e Svezia.

Ma al di là delle sospensioni previste dai Trattati, esiste una forte corrente all’interno dell’Unione che spinge per uno stop di due anni degli Accordi.

Se fino a poco tempo fa chi avesse ipotizzato la fine di Schengen si sarebbe preso delle risatine di scherno, adesso sembra necessario affermare che ciò non accadrà.

Un’Europa senza Schengen

Ci sarebbero tante parole da spendere sull’importanza fondamentale della libertà di circolazione e di movimento. Viene da pensare che potrebbe esistere un’Unione Europea senza la moneta unica, ma non senza la libertà di movimento dei cittadini all’interno dell’area.

Ma oltre agli aspetti inerenti agli effetti dirompenti sulla crescita e maturazione del popolo europeo che ancora è agli albori, sussistono anche dei lati economici nella vicenda, di certo non trascurabili, anche perché molto sensibili nell’opinione pubblica.

Nella prima conferenza stampa del 2016, il presidente della Commissione Europea Juncker ha citato alcuni effetti economici negativi che deriverebbero dalla fine dell’applicazione degli Accordi di Schengen, come ad esempio un costo di 55 € per ora a danno dei trasportatori che attraversano i confini all’interno dell’Area, a causa dei ritardi che accumulerebbero alla frontiera per i necessari controlli.

Secondo Juncker, la fine di Schengen costerebbe annualmente 3 miliardi di euro di perdite all’interno dell’Unione Europea.

In un’epoca in cui mobilità e flessibilità operativa appaiono essenziali per chi vuole respingere gli assalti della disoccupazione (soprattutto giovanile), la reintroduzione dei controlli alle frontiere rappresenterebbe un serio problema. Il Think Tank Bruegel afferma che nel 2014 quasi 1,7 milioni di residenti dell’Area Schengen hanno oltrepassato i confini nazionali. Nel 2013 sono stati effettuati 218 milioni di viaggi notturni oltreconfine, di cui 25 milioni per motivi di lavoro.

Nel 2015 3,8 milioni di camion dall’Austria e 3,1 milioni dalla Polonia hanno oltrepassato il confine con la Germania. Numeri che crescono di anno in anno. Nonostante sia ancora difficile stimare il danno economico in maniera precisa, è abbastanza intuitivo che in una fase di ripresa minima dalla recessione nell’UE (tra l’altro con qualche primo segnale di frenata e rischi al ribasso segnalati più volte anche dal presidente della Bce, Mario Draghi), la cosa meno intelligente da fare da un punto di vista economico sia quella di imporre restrizioni alla libertà di movimento.

Degli effetti positivi di Schengen ne scriveva nel 2011 anche l’attuale Presidente dell’INPS, Tito Boeri, il quale ricordava che l’Unione – in misura ancora più significativa rispetto agli USA – può avere grandi vantaggi dalla mobilità del mercato del lavoro all’interno del territorio europeo, con la mobilità intesa come fattore positivo in termini di ripresa economica.

Costi e benefici dell’immigrazione

Schengen è in pericolo a causa dei fenomeni migratori. Paesi del centro e del nord Europa non vogliono accettare i migranti lasciati passare e non identificati dai Paesi del Sud. Il tema fondamentale è quindi senz’altro l’immigrazione.

Non è facile discutere di queste tematiche in termini economici. Tuttavia, considerato che sono proprio gli argomenti prettamente finanziari a farla da padroni nei dibattiti politici, appare opportuno riflettere su alcuni dati empirici.

Partiamo da un recente post apparso sul World Economic Forum. In esso l’autore evidenzia una serie di vantaggi legati all’immigrazione.

In sintesi:

1) Sia gli immigrati qualificati, sia quelli non qualificati possono offrire vantaggi ai Paesi di destinazione. I primi sono talenti che aiutano le imprese, rendendole più agili e profittevoli. I secondi non sono meno importanti, in quanto sono “vitali” per settori come le costruzioni, l’agricoltura etc.

2) Una ricerca della Federal Reserve Bank of San Francisco – citata nel post del WEF – sostiene che gli immigrati espandono le capacità produttive di un’economia, stimolando investimenti e specializzazione.

3) Secondo uno studio della World Bank, l’aumento di immigrati di una quota pari al 3% della forza lavoro nei Paesi sviluppati genererebbe guadagni – a livello globale – pari a 356 miliardi di dollari.

4) L’autore sottolinea anche i vantaggi che i lavoratori stranieri comportano nei confronti dello squilibrio demografico nei Paesi OCSE, alcuni dei quali (tra cui l’Italia) sono particolarmente “invecchiati”.

Nonostante l’autore supporti l’immigrazione quale risorsa pro-crescita, non manca di sottolineare i lati negativi della stessa. La maggiore percezione sociale dei costi rispetto ai benefici è dovuta principalmente al fatto che questi ultimi si materializzano nel lungo periodo, mentre gli inconvenienti sono quasi tutti di breve periodo (che poi è l’unico periodo che interessa ai politici).

Uno studio del Fondo Monetario Internazionale ha stimato l’impatto dei rifugiati (sì, sto facendo un uso promiscuo dei termini “rifugiati” e “immigrati”, ma consideriamoli semplicemente come persone che lasciano i propri Paesi per cercare un futuro migliore) sul PIL europeo nell’ordine dello 0,2%, dovuto principalmente al necessario aumento di spesa pubblica. Nel medio periodo l’impatto potrebbe essere maggiore, ma ciò dipenderà da come si integreranno i nuovi arrivati.

Questi studi recenti confermano il positivo impatto dell’immigrazione sull’espansione dell’economia (si legga anche su Voxeu.org), ma restano irrisolti numerosi problemi nel breve periodo.

Perché forse è proprio lì la chiave della discussione. Se ci sono inefficienze nel settore ospedaliero, nella gestione delle carceri, nel sistema della giustizia penale, nella situazione di degrado di alcune periferie, l’arrivo in massa di persone senza un reddito e senza lavoro non fa che aggravare questi problemi. Ecco quindi che l’immigrazione mette in luce tutte le nostre inefficienze, in Italia come in Europa, e tutti i problemi strutturali che non siamo capaci di risolvere.

Ed allora forse preferiremmo non risolverli, scegliendo la strada più semplice e rinunciando agli immigrati, che però sono essenziali per la sostenibilità di una popolazione invecchiata (leggasi, pensioni) e per introdurre nel Paese nuove energie, necessarie per lo sviluppo.

Immigrazione da lavoro e immigrazione da welfare

Nel menzionato post del WEF, è scritto che “Some economists predict that if borders were completely open and workers were allowed to go where they pleased, it would produce gains as high as $39 trillion for the world economy over 25 years.”. In sintesi: se non ci fossero restrizioni ai confini, l’economia mondiale ne guadagnerebbe 39 trilioni di dollari in 25 anni.

Ciò riporta alla mente il pensiero del premio Nobel Milton Friedman, il quale riteneva che l’immigrazione fosse stata storicamente un fattore positivo di crescita e sviluppo, portando l’esempio degli Stati Uniti. Dal suo punto di vista, non dovrebbe sussistere alcuna restrizione ai confini. Chi dovesse lasciare il suo Paese per svariati motivi (fame, guerra, tenore di vita basso), troverebbe naturalmente il posto più adatto alle sue esigenze ed inizierebbe una nuova vita.

Tuttavia, ammoniva Friedman, vi è una sostanziale differenza tra chi emigra per cercare lavoro e chi lo fa per cercare i benefici dello Stato sociale. Se concedi misure di welfare generose, prima o poi dovrai porre restrizioni all’ingresso. Se ci pensate, l’esempio dei Paesi Scandinavi dimostra che un welfare di alta qualità collide con l’immigrazione di massa. Se ne è accorta anche la Germania.

È una scelta difficile: si può liberamente accogliere (con vantaggi necessari e vitali nel lungo termine), ma è molto difficile garantire nel tempo i benefici dello Stato sociale ai nuovi arrivati, perché le risorse già non bastano per i residenti.

Una provocazione quella di Friedman, ma è una provocazione che coglie il punto, la ragione precisa per cui l’Europa sta mettendo a repentaglio gli Accordi di Schengen.

Twitter @frabruno88