La flessibilità che serve al lavoro e qual è il vero difetto del Jobs Act

scritto da il 22 Dicembre 2016

Pubblichiamo un post di Thomas Manfredi, economista dell’OCSE (social policy). Lavora nella divisione di analisi del mercato e delle politiche del lavoro, dove si occupa di analisi econometriche per l’Employment Outlook

In un post del 19 dicembre su questo blog, Emiliano Brancaccio, Nadia Garbellini e Raffaele Giammetti hanno sostenuto che più flessibilità del lavoro non crea occupazione, citando a conforto della loro tesi un lavoro empirico dell’Ocse del 1999, secondo gli autori replicato in ulteriori studi empirici, che mostrerebbe l’assenza di ogni correlazione fra tassi di disoccupazione e protezione all’impiego, fra paesi Ocse. La loro tesi è che ci troveremmo di fronte a una sorta di allucinazione collettiva, e che le sbandierate riforme liberalizzatrici sono in realtà inefficaci nel mercato del lavoro.

Chi scrive è ricercatore nel Dipartimento delle politiche del lavoro e sociali dell’Ocse dal 2007. Lungi dall’avere l’intenzione di fornire una “versione ufficiale” del pensiero dell’Istituzione parigina, credo che l’interpretazione dei dati forniti dagli autori non sia né corrispondente alla analisi corrente e passata dell’Ocse, in materia di protezione all’impiego, né al passo coi tempi della ricerca economica contemporanea nel campo dell’economia del lavoro.

Senza entrare in una disfida puramente tecnica, è necessario affrontare il problema succitato ricordando innanzitutto le basi teoriche che fondano l’analisi empirica in tema di rapporto fra regole del mercato del lavoro, e risultati in termini di livelli e crescita salariale, e disoccupazione. I dati non parlano mai da soli, se non ancorati a una corretta interpretazione, che solo la teoria può fornire. I test statistici servono infatti per confutare una tesi, necessariamente basata sulle predizioni di una teoria. Gli autori del post non sembrano fornire alcun fondamento teorico alle loro asserzioni, e criticano l’assunto “più flessibilità causa più impiego” senza esplicitare gli incentivi per lavoratori e imprese nel mercato del lavoro.

A dire il vero, la letteratura economica in campo di protezione all’impiego, è abbastanza concorde nel donare predizioni basate necessariamente su modelli cosiddetti di search theory. Il lavoro non è una commodity, e le classiche curve di domanda e offerta non sono sufficienti a descrivere il funzionamento di questo particolare mercato. I lavoratori sono in possesso di competenze diverse. Le imprese domandano principalmente competenze per un profilo professionale che solitamente concorre con altri lavoratori, con la tecnologia disponibile, con le pratiche manageriali, a produrre un certo surplus con il quale remunerare il lavoro prestato, remunerare il capitale investito e pagare tasse.

La ricerca di un buon candidato o di un buon posto di lavoro avviene in condizioni di asimmetria informativa e incertezza, il che rende l’eventuale instaurazione di un rapporto dipendente da una serie di fattori stocastici, la fortuna, oltre che da un processo costoso di selezione.

La moderna teoria del mercato del lavoro è perciò principalmente interessata a descrivere il modo in cui si forma e si termina un rapporto di lavoro, quello che nella teoria è conosciuto come “funzione di matching”. In un dato istante, infatti, posti vacanti e candidati alla posizione si incontrano con una certa probabilità, che è funzione sia delle correnti condizioni cicliche, dipendenti dalla domanda aggregata, sia dalle regole strutturali che governano il processo di selezione, assunzione e terminazione del rapporto del lavoro. È perciò intuitivo che le regole strutturali che determinano quale protezione accordare al rapporto di lavoro dipendente concausano sia la probabilità che l’assunto sia il migliore possibile nel pool di candidati, sia la probabilità aggregata di pubblicizzare un posto vacante.

Se, infatti, le regole del mercato del lavoro accordano una sostanziosa assicurazione implicita contro la perdita del lavoro al lavoratore, come nel caso del reintegro obbligatorio dell’articolo 18, allora diverrà più costoso sopprimere un rapporto che crea poco surplus rispetto al costo opportunità di un migliore match con altre competenze disponibili nel mercato. È chiaro che, in equilibrio, il lavoratore che perdesse il posto in questo modo subirebbe una perdita di benessere momentanea, ma beneficerebbe anche di più posti vacanti di lavoro concorrenti, come la totalità dei lavoratori nel mercato del lavoro.

Immaginando due mercati del lavoro del tutto simili, tranne nelle regole di protezione accordate, è semplice mostrare come quello più flessibile fra i due produce più possibilità di impiego, in un certo intervallo di tempo, mentre il tasso di disoccupazione, che cattura lo stock di persone ancora in cerca di un impiego in un dato istante, potrebbe teoricamente essere lo stesso. È il solito errore in cui si incorre nel non distinguere stock e flussi. Lo stock di impiegati in un tempo dato è una metrica diversa dal flusso totale di posti creati o distrutti in un intervallo di tempo. La fluidità e flessibilità tanto criticate nel post catturano la seconda, ed è perciò metodologicamente errato criticare le raccomandazioni di politica economica basate sulla falsificazione di una teoria con una metrica non appropriata.

La teoria presentata, infatti, dona le seguenti predizioni, da testare infine con le evidenze empiriche:

– Minori costi di terminazione di un posto di lavoro sono associati a più creazione e distruzione di posti in un determinato intervallo temporale. La liberalizzazione ha perciò effetti benefici sia sul numero di assunzioni sia sul numero di licenziamenti e altre separazioni;

– Maggiore flessibilità, così definita, è associata a migliori combinazioni lavoratori/imprese, con effetti benefici sul salario medio osservato e sulla produttività totale dei fattori e del lavoro.

– Le regole di protezione sono a priori non necessariamente correlate al tasso di disoccupazione, fra paesi.

– Una riforma intervenuta in un dato paese, causa un iniziale impatto negativo sulla occupazione e sul salario, ma le perdite sono di solito assorbite in tempi ragionevoli, e si trasformano in guadagni di produttività – e salari – nel lungo periodo.

Tutte queste predizioni sono state di fatto non falsificate dai principali lavori empirici in campo di economia del lavoro. La letteratura è sterminata, e basta una breve panoramica delle pagine di ricerca di IZA, l’istituto internazionale di ricerca di economia del lavoro più prestigioso, o di Labour Economics, la più prestigiosa rivista del campo, per convincersene. L’Ocse, che basa le sue analisi ben conscia del contemporaneo dibattito accademico e scientifico in campo di economia del lavoro, non fa eccezione.

Nel numero più recente dell’Employment Outlook, citato dagli autori del post, un capitolo era dedicato proprio a testare l’impatto delle riforme liberalizzatrici, distinguendo fra gli effetti a breve e quelli a lungo termine, come nella migliore delle analisi economiche. È abbastanza surreale citare una fonte senza riportare per intero il messaggio contenuto. Ebbene, l’Ocse conferma in pieno le predizioni appena presentate. Le riforme che abbattono i costi di terminazione di un posto di lavoro sono associate a perdite contenute di salario e occupazione nel breve periodo, ma in un lasso di tempo ragionevole, 2 o 3 anni, l’effetto aggregato diventa positivo. La perdita di occupazione è assorbita, e il salario medio osservato è più alto.

Inoltre, i costi di breve termine sono solitamente minori nel caso di efficaci riforme intraprese in tempo di espansione, ovvero quando la domanda aggregata di lavoro è alta, e possono essere attutiti nel caso di sistemi di sussidi di disoccupazione ben disegnati, e di politiche attive efficienti, che aiutino i lavoratori con i curricula più deboli eventualmente colpiti dalla liberalizzazione.

È lampante che in Italia, che si è auto condannata a una riforma in tempi non propriamente di boom, e dove i servizi all’impiego pubblici e privati funzionano in modo segmentato, con ampie fasce di occupati con competenze non sufficienti – come confermato dalle analisi PISA e PIACC dell’OCSE stessa – i costi sono stati probabilmente  maggiori, ma questo non ha nulla a che fare con una supposta falla nella teoria economica o un pensiero ideologizzato, come esplicitato da Brancaccio, Garbellini e Giammetti. Al contrario, si potrebbe ribattere che essi siano colpevoli di ideologico “cherry picking”: cercano di falsificare una teoria usando una predizione che la teoria stessa non fornisce. Mostrare che il tasso di disoccupazione è non correlato alle politiche di protezione all’impiego significa confermare la teoria, non smentirla, tralasciando astutamente di citare gli altri effetti benefici di un mercato del lavoro meno sclerotico e più dinamico.

Vorremmo, perciò, rassicurare i lettori meno propensi a controllare le fonti originali. Il mercato del lavoro italiano, date le teorie e le evidenze empiriche, non potrà che beneficiare nel lungo periodo della riforma del Jobs Act, che è colpevole di una sola mancanza: non aver accelerato in modo sostanzioso su una piena implementazione delle politiche attive, e di essere al limite troppo timida nel suo target.

Twitter @ThManfredi