Qual è il vero rischio dell’automazione del lavoro?

scritto da il 30 Gennaio 2017

Pubblichiamo un post di Giovanni Caccavello, research fellow in European Policy presso EPICenter ed Institute of Economic Affairs. Master (MSc) in economia dello sviluppo presso la University of Glasgow

Come ho avuto modo di scrivere nel mio primo post su Econopoly, nel corso di questi ultimi anni molti economisti, accademici, ricercatori e commentatori hanno nuovamente portato alla ribalta la storica “lump-of-labour fallacy”, ovvero l’idea (storicamente erronea) che la quantità di posti di lavori sia fissa.

Secondo tutti questi studiosi, un altissimo numero di lavoratori sarebbe oggi a rischio disoccupazione. Stando alla vulgata corrente, non appena ci saranno a sufficienza robot e macchine estremamente intelligenti, intere occupazioni scompariranno ed una fetta molto larga degli attuali “occupati”, si ritroverà – de facto – senza lavoro.

Guai però a riflettere su quali nuove opportunità si apriranno per coloro i quali verranno “sostituiti”, ma soprattutto guai ad analizzare il rapporto “capitale-lavoro” attraverso i meccanismi dei prezzi relativi e a tenere in considerazione la realtà macroeconomica odierna. In poche parole, gli argomenti che vengono oggi esposti da molti intellettuali di primo piano sono esattamente gli stessi di David Ricardo, di John Maynard Keynes, di John Fitzgerald Kennedy e del premio Nobel per l’economia Wassily Leontief (solo per citare alcuni dei più famosi). Come la storia economica ci insegna, le previsioni di tutti questi ultimi sono state smentite dai fatti.

Lo storico dibattito sull’automazione del lavoro si è ufficialmente riaperto nel 2013, dopo la pubblicazione da parte di Carl Benedikt Frey e di Michael Osborne (due professori della University of Oxford) di un paper intitolato “The Future of Employment: How Susceptible are Jobs to Computerization?”.

In pillole, la tesi principale di questo lavoro è che circa la metà degli occupati statunitensi – il 47%, per essere precisi – sia attualmente ad alto rischio “sostituzione”. In altre parole, l’introduzione di macchine artificiali super intelligenti, la computerizzazione del lavoro e la digitalizzazione di interi eco-sistemi aziendali porteranno a decine e decine di milioni di disoccupati nel corso dei prossimi due decenni.

Frey e Osborne concludono il loro studio in modo pessimistico senza però porsi una domanda fondamentale: cosa succederà una volta che l’effetto di sostituzione avrà fatto il suo corso? Ci sarà un altrettanto forte effetto di compensazione che poterà alla creazione di nuove industrie, occupazioni e quindi nuovi posti di lavoro? Tutto ciò non ci è dato sapere, ma è facile pensare che il progresso tecnologico porterà alla creazione di nuove occupazioni, esattamente come avvenuto in passato.

L’unica cosa che però possiamo esaminare sono i punti deboli citati da questo paper che ha successivamente ispirato molti altri studi, tra cui un’interessante analisi di Jeremy Bowles del 2014, intitolata “The computerisation of European Jobs”, che prende in considerazione i 28 paesi dell’Unione Europea.

In primis, è giusto informare il lettore che tutti questi studi utilizzano il cosiddetto metodo occupazionale (occupational-based approach), ovvero analizzano il mercato del lavoro dividendolo per occupazioni svolte anziché per categorie di compiti svolti. Di conseguenza, come spiegano bene Melanie Arntz, Terry Gregory e Ulrich Zierahn in un paper pubblicato dall’OCSE nel maggio 2016, questo metodo tende facilmente a sovrastimare i potenziali effetti negativi dell’automazione del lavoro.

Gli studi di Arntz, Gregory e Zierahn chiariscono molti aspetti e mostrano in modo evidente come la ricerca di Frey e di Osborne (e quelle successive, basate su simili supposizioni) sia poco attendibile. Stando a quanto riportato dai tre ricercatori del “Center for European Economic Research” di Mannheim, se si cambia l’ipotesi centrale del metodo occupazionale e si introduce il cosiddetto “task-based approach” – una metodologia che permette di analizzare attività giornaliere diverse all’interno della stessa occupazione – si può osservare come la percentuale di lavori ad alto rischio “sostituzione” sia molto minore.

Esaminando 21 paesi della zona OCSE (tra cui anche l’Italia – vedi grafico 1), gli autori evidenziano come – in generale – solo il 9% degli attuali occupati sia ad alto rischio “sostituzione”. In particolare, il pericolo del progresso tecnologico sembra essere minore in tutti quei paesi avanzati che investono di più nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), che spendono maggiormente nell’educazione terziaria, che promuovono migliori politiche a livello educativo, fin dalla scuola primaria, e che pongono una maggiore attenzione per le attività comunicative aziendali .

Grafico 1: Percentuale di occupati ad alto rischio sostituzione in 21 paesi OCSE – tratto da Arntz et al. (2016). “The Risk of Automation for Jobs in OECD Countries: A Comparative Analysis”.

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Al tempo stesso, i tre autori spiegano che le loro statistiche vanno lette con cautela poiché – così come per tutte le altre ricerche – anche il loro approccio metodologico si basa principalmente sul giudizio di esperti del settore. Recenti studi del 2015 di David Autor (Massachusetts Institute of Technology – MIT), di Sabine Pfeiffer e di Anne Suphan dimostrano che questo tipo di approccio metodologico tende quasi sempre a sovrastimare il vero rischio dell’automazione del lavoro.

Insomma è come chiedere a dei rappresentanti del governo se lo Stato debba spendere di più: la risposta sarà quasi sempre sì.

Contrariamente alle previsioni più pessimistiche, diverse analisi recenti sottolineano come l’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro umano dipenda largamente dai prezzi relativi di capitale e di lavoro e dalla recettività del mondo aziendale di capitalizzare queste opportunità. Uno studio condotto dal ministero federale degli Affari Economici della Germania evidenzia che – al momento – solo il 18% di tutte le aziende tedesche abbia una conoscenza familiare del concetto di “Industria 4.0” e che, solamente il 4% circa di tutte le aziende nazionali, abbia già avviato progetti di digitalizzazione interna (ZEW, 2015).

Anche i più pessimisti non hanno molte certezze sul come, quando e perché i loro scenari apocalittici si materializzeranno. Tutta questa confusione sembra però confermare quanto emerge in un libro molto interessante di Fredrik Erixon e di Björn Weigel intitolato “The Innovation Illusion” (2016). Dopo una lunga ed esaustiva ricerca, che osserva da vicino l’andamento della produttività a partire dai primi anni ‘70, i due autori giungono ad un’ amara conclusione: tutti coloro che sono eccessivamente ottimisti verso le attuali innovazioni o tutti coloro che sono troppo pessimisti sulla sostituzione di decine e decine di milioni di posti di lavoro, tendono quasi sempre ad ignorare le sconfortanti realtà macroeconomiche del mondo attuale.

Probabilmente, come riporta anche “The Economist” in un report speciale di giugno 2016, questa nuova ondata di trasformazione tecnologica dovrà essere considerata più una transizione che una rivoluzione.

L’unica cosa di cui per ora siamo certi è che in passato i catastrofismi neo-luddisti sul progresso tecnologico non si sono mai verificati. A questo proposito, sapete come è andata a finire con i bancomat (ATM) che avrebbero dovuto “rubare” il lavoro a decine di migliaia di sportellisti bancari americani? Risposta: man mano che il numero di ATM è aumentato, tra i primi anni ’70 ed il 2012-2013 il numero di sportellisti è più che raddoppiato (vedi grafico 2).

Grafico 2: numero bancomat (ATM) e numero sportellisti tra il 1970 ed il 2012-2013 – tratto da Bessen, J. (2015). “How Computer Automation Affects Occupations: Technology, Jobs and Skills”.

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