Inquinamento e salute, le politiche della mobilità non servono a (quasi) niente

scritto da il 06 Dicembre 2017

L’autore di questo post è Francesco Ramella, ingegnere dei trasporti; insegna “Trasporti e Logistica” presso l’Università di Torino; research fellow dell’Istituto Bruno Leoni e di IREF; vicepresidente di Bridges Research –

Nelle scorse settimane, a seguito del superamento di alcuni limiti previsti dalla vigente normativa europea, sono stati attuati divieti di circolazione estesi anche a veicoli di recentissima immatricolazione e si è riproposta come misura strutturale il potenziamento dei trasporti collettivi. Tali provvedimenti vengono di norma giustificati alla luce della “emergenza smog”. Ma siamo davvero in presenza di una situazione emergenziale? E qual è l’efficacia, l’efficienza e l’equità dei provvedimenti adottati?

Dov’è l’emergenza?
È possibile considerare l’inquinamento atmosferico alla stregua di un terremoto, di un’alluvione o di un incendio, ossia di circostanze impreviste che richiedono misure di intervento immediate e radicali?

A giudicare dai dati di cui disponiamo, la dizione non appare corretta. La qualità dell’aria nelle città di tutti i Paesi occidentali è in costante miglioramento da svariati decenni. Oggi, a livello mondiale, l’inquinamento con maggiore impatto è quello indoor nelle abitazioni dei Paesi più poveri dove si registrano concentrazioni di polveri sottili pari a circa venti volte quelle outdoor in Europa (Figura 1).

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La maggior parte degli studi epidemiologici giunge alla conclusione che gli attuali livelli di inquinamento determinano un incremento della mortalità correlata a patologie assai diffuse, in particolare quelle cardiovascolari. Il rischio relativo stimato è molto ridotto: si tratta di pochi punti percentuali a fronte di valori superiori a cinque come accadeva in passato. Non mancano peraltro pubblicazioni che mettono in discussione il legame tra inquinamento e aumento della mortalità sia nel breve che nel lungo periodo. Le incertezze in merito alla rilevanza degli effetti sulla salute sono legate alla piccolezza del rischio.

L’Agenzia ambientale europea stima che in Italia la riduzione dell’aspettativa di vita causata dal PM2.5 sia pari a 1.024 anni per 100.000 abitanti ossia poco più dell’1%. Nella Pianura padana, area che fa registrare livelli di inquinamento tra i più elevati in Europa a causa delle condizioni orografiche avverse alla dispersione degli inquinanti, la speranza di vita è superiore alla media italiana e di quella della UE (Tabella 1).

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Qual è l’efficacia delle attuali politiche della mobilità?
In conseguenza della forte diminuzione delle emissioni unitarie dei veicoli – indicativamente un’auto a standard EURO VI ha emissioni pari ad un decimo di quella di una EURO 0 – le politiche di riduzione del trasporto su gomma risultano oggi largamente inefficaci: ad esempio, gli interventi previsti dal PUMS di Milano comporteranno una riduzione delle emissioni di polveri sottili dell’1% in ambito provinciale.

Il trasporto su strada che viene spesso additato come principale responsabile degli impatti sanitari dello smog ha in realtà un peso oggi minoritario. Un recente studio pubblicato su Nature ripartisce la responsabilità delle morti premature ai vari settori; a quello dei trasporti terrestri vengono attribuiti 3.519 casi su un totale di 20.809 ovvero il 16% a fronte di poco meno del 40% dell’agricoltura (Tabella 2).

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Una ipotetica riduzione del trasporto su strada del 10% comporterebbe quindi una diminuzione della mortalità correlata all’inquinamento dell’ordine del 2% (e, indicativamente, un aumento della speranza di vita dello 0,02%).

Le politiche adottate sono efficienti ed eque?
Politiche di sussidio dei trasporti collettivi o provvedimenti di restrizione della circolazione volte alla riduzione degli impatti ambientali della mobilità sono soluzioni di second best. Impedire la circolazione ad un veicolo equivale ad assumere implicitamente come infinito il danno da esso arrecato: il cittadino (ligio alla norma) non può muoversi con la sua auto quale che sia l’utilità che egli può trarre da quello spostamento.

L’approccio ottimale, sostenuto peraltro dalla stessa UE, sia dal punto di vista dell’efficienza che dell’equità è quello pigouviano: chi inquina, paga (e non chi è inquinato sopporta in qualità di contribuente i costi dei provvedimenti).

A tal riguardo si può notare come il settore della mobilità è quello che ha fatto registrare negli scorsi decenni i maggiori progressi in termini di riduzione dei costi esterni. Se si prendono in considerazione i dati della UE si rileva che l’impatto provocato da un’auto a gasolio è diminuto dai 9,9 eurocent per chilometro percorso di un veicolo “Euro 0” a 0,9 per uno a norma “Euro V” (Figura 2).

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Inoltre, l’attuale livello di pressione fiscale sull’auto in Italia ed in Europa è tale per cui le esternalità ambientali risultano già internalizzate. Non sussistono dunque le condizioni che possono giustificare l’attuazione di altri provvedimenti di incentivo o divieto.

Sarebbe piuttosto opportuno agire nella direzione di una differenziazione del prelievo fiscale riducendolo laddove non vi è congestione ed introducendo un pedaggio nelle zone più trafficate; al contempo si dovrebbero eliminare o quanto meno ridurre gli incentivi agli altri settori, in particolare quello agricolo e delle biomasse. E occorrerebbe rivedere i limiti europei introdotti in assenza di una valutazione dei costi da sopportare per conseguirli.

Twitter @ramella_f