Il tango del petrolio si balla anche in tre, ecco perché il prezzo nel 2018 non scenderà

scritto da il 10 Gennaio 2018

L’autore di questo post, Raffaele Perfetto, ha acquisito esperienza decennale in ambito Oil & Gas con una Major Oil Company. Ha conseguito un MBA in Oil & Gas Management nel 2016. Scrive preferibilmente di energia e geopolitica –

Come è noto, it takes two to tango. Ma nel caso del mercato del petrolio forse sarebbe più opportuno parlare di un ménage a trois tra americani, sauditi e russi, perché il nocciolo duro dell’Opec+ (Opec e paesi alleati) è l’asse tra Mosca e Riad. Ma per semplicità focalizziamoci sui movimenti tra Federal Reserve e Opec+. Vediamo in ordine cronologico:

  1. novembre 2016, Opec+ annuncia il taglio di 1,8 milioni di barili al giorno (non avveniva dal 2008). La Federal Reserve segue e a dicembre 2016 alza i tassi da 0,5 a 0,75%. Poi a marzo 2017 passa da 0,75 a 1%;
  2. maggio 2017, Opec+ decide di estendere i tagli fino al 2018. La Federal Reserve segue e alza i tassi a giugno, a quota 1.25%;
  3. novembre 2017, Opec+ decide di estendere i tagli fino a giugno 2018 (poi se ne riparlerà). La Federal Reserve segue e a dicembre alza i tassi da 1,25 a 1,5%

Ricordiamo che lo shale boom americano è avvenuto anche grazie ai tassi bassi e al debito, in seguito allo stimolo avviato dalla Federal Reserve dopo la crisi del 2008. L’indebitamento ha coperto le piccole compagnie petrolifere (motore del boom) quando i flussi di cassa non erano sufficienti.

Sebbene l’aumento dei tassi della Federal Reserve possa avere affetti negativi sui produttori petroliferi americani, per l’economia americana è importante normalizzare le condizioni.

Ma quanto pesa il comparto Oil&Gas? In termini di PIL il comparto Mining (incluso petrolifero, che è la gran parte) non supera il 2% (dati Bureau of Economic Analysis [1]). In termini di lavoro, un rapporto [2] del 2017 del US Department of Energy (DOE) riporta circa 6 milioni di americani impiegati nel settore energia, di cui stimiamo, poco sotto il 50% solo nell’Oil&Gas e indotto.

Qualcuno potrebbe farci giustamente notare che dobbiamo tenere conto anche del fatto che grazie allo shale boom, gli USA godono di costi energetici più vantaggiosi. Se ne avvantaggiano le aziende energivore (petrolchimico, fertilizzanti, cemento, carta, vetro, ferro acciaio e alluminio): tutti questi settori hanno a loro volta (cumulativamente) un’incidenza sul PIL di circa il 10 %.

La riduzione dei costi energetici è presumibilmente in grado di determinare valore intorno al 3 ‰ di PIL. Sembra poco ma parliamo di decine di miliardi di dollari. Poi dobbiamo tenere in considerazione il peso geopolitico degli Stati Uniti, aumentato proprio grazie alla riduzione di importazioni e all’inizio delle esportazioni (di LNG gas liquefatto, principalmente).

In sostanza capiamo che se i tassi della Federal Reserve aumentano è meglio avere un prezzo del barile sopra ai 45/50 dollari per non impattare il comparto Oil&Gas americano.

Prima della fine dello stimolo monetario della Federal Reserve, i paesi esportatori asiatici, come la Cina, hanno accumulato molte riserve in dollari, investiti poi in titoli del tesoro Usa. Anche i paesi esportatori di petrolio hanno partecipato quando potevano (prima del crollo del prezzo del barile nel 2014) all’acquisto dei titoli del tesoro americano. Questo ha contribuito a tenere i tassi bassi ma adesso le dinamiche stanno cambiando: la Cina, ad esempio, ha venduto da fine 2016 circa un trilione di dollari di titoli del tesoro e anche i paesi esportatori di petrolio hanno dovuto spendere riserve in dollari per fronteggiare i loro bilanci.

Prezzo basso? Non conviene ai paesi esportatori di petrolio, appunto per i loro costosi bilanci. Nel caso dell’Arabia Saudita: Bloomberg Economics [3] ha stimato che per il budget 2018 sono necessari 87 dollari a barile. Inoltre non dimentichiamo che nel 2018 si attende la possibile quotazione (non si sa ancora dove) di un pezzettino della Saudi Aramco. Quindi, meglio avere un prezzo favorevole.

Non conviene alla Russia (tra sanzioni e impegni geopolitici) e non conviene ai banchieri centrali che stanno cercando in tutti i modi di far salire l’inflazione.

Un colpo al cerchio e uno alla botte: il taglio delle tasse di Trump
Dovrebbe comportare un aumento della spesa e degli investimenti ma anche dei salari. È quello che chiedono gli elettori americani. Se la fiducia dei consumatori americani resta alta allora anche i consumi lo saranno. La Federal Reserve ridurrebbe la liquidità di circa 1,5-2 trilioni di dollari di titoli che ha in pancia, entro il 2020.

L’aumento dei tassi farà aumentare anche i tassi richiesti dai titoli di stato americani. Potremmo avere in generale un aumento di costi finanziari per fare business e uno spostamento di capitali dal comparto azionario a quello dei titoli del tesoro. Tuttavia il taglio delle tasse proposto dall’amministrazione Trump garantirebbe maggiori profitti alle aziende ed andrebbe a controbilanciare questa tendenza di flussi in uscita da Wall Street.

Inoltre, il taglio delle tasse ridurrebbe la convenienza da parte delle aziende ad emettere debito (il costo del debito non è tassato) così – in un certo senso – i corporate bond aziendali “competerebbero di meno” con i titoli del tesoro americano. Quindi una potenziale riduzione dei flussi di capitali verso le compagnie dello shale americano. Con meno debito (facile) a disposizione, le piccole compagnie petrolifere americane avrebbero qualche difficoltà in più e questo aggiungerebbe stabilità al mercato. Anche se sappiamo quanto queste compagnie siano resilienti, ne parla Econopoly in un recente post [4].

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Elaborazioni del Fondo monetario internazionale

Geopolitica: quali aree calde da tenere sott’occhio?
Il Venezuela, che ha perso 700 mila barili da inizio 2016. La Libia che pochi giorni fa ha subito un attentato all’oleodotto che va al porto di Es Sider (adesso già risolto). La Nigeria che ha una condizione di instabilità legata ai guerriglieri del Delta del Niger ma anche al sindacato oil & gas, ricordiamo l’ultimo sciopero dello scorso 18 dicembre (che non ha avuto impatti di produzione) mentre uno sciopero del nel 2016 causò il blocco di circa 500 mila barili al giorno per quasi una settimana. Il Kurdistan che dal referendum produce circa 300 mila barili in meno.

Infine abbiamo l’Iran, a metà gennaio scade il termine di 60 giorni riguardo le sanzioni; prima delle sanzioni produceva circa 1 milione di barili al giorno in meno del livello attuale. Ad oggi il primo mercato di esportazione dell’Iran è la Cina. Proprio il 2 gennaio tra Cina e Russia è stata inaugurata un’altra pipeline con capacità di 700 mila barili. Ad ora i rischi di interruzioni nella produzione iraniana sono molto bassi. Ma non si sa mai.

Twitter @Raff_Perf

NOTE

[1]https://www.bea.gov/national/index.htm#gdp
[2] U.S. Energy and Employement Report
[3]https://www.bloomberg.com/news/articles/2017-12-19/saudi-arabia-to-boost-spending-next-year-with-economy-struggling
[4]http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2017/12/26/shale-oil-bce/
[5]https://www.imf.org/en/Publications/GFSR/Issues/2017/09/27/global-financial-stability-report-october-2017#Chapter One