Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse. Sul sedile le tesi di laurea dei suoi allievi

scritto da il 16 Marzo 2018

Quaranta anni fa, con un’azione militare di rara efficacia, le Brigate Rosse rapiscono il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro e ammazzano senza pietà tutti i cinque uomini di scorta (Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Domenico Ricci e Giulio Rivera). Nei numerosi racconti su quel giorno mi ha sempre colpito il fatto che Aldo Moro sul sedile posteriore, oltre al pacco dei giornali, avesse con sé dieci tesi di laurea rilegate. Il segretario della Dc era atteso alla Sapienza dove alcuni allievi di procedura penale erano pronti a discutere le tesi e laurearsi.

L’impegno universitario era per Moro improrogabile, nonostante le giornate politiche fossero piene. Lo stesso valeva per Paolo Baffi, allora governatore della Banca d’Italia, che insegnava storia e politica monetaria alla facoltà di scienze politiche sempre alla Sapienza. Nelle Carte Baffi presso l’Archivio Storico della Banca d’Italia che visito con assiduità ho trovato conferma della passione di Moro per l’insegnamento. Il giorno dopo il rapimento, il 17 marzo 1978, Baffi scrisse alla signora Eleonora una lettera bellissima che qui riporto (ASBI, Carte Baffi, Monte Oppio, cart. 9, fasc. 5):

Gentile Signora,

sono certo di esprimere il sentimento di tutti i miei colleghi della Banca, oltre che il mio, nel manifestarLe il senso si angoscia e trepidazione con cui seguiamo in questi tristi giorni la sorte del Suo illustre consorte. La sua auspicata sollecita liberazione segnerà un momento di unità nel quale tutta l’Italia si ritroverà commossa come una grande famiglia. Con l’altezza dell’ingegno e con l’esempio morale, Egli è assurto nella dignità massima guida spirituale non solo del suo partito, ma di una moltitudine di cittadini onesti e preoccupati della sorte della Patria che in Lui si riconoscono.

Personalmente, ho l’onore di essere suo collega di insegnamento alla Facoltà di scienze politiche, dove più di una volta, con viva ammirazione e una punta di commozione, mi è accaduto di incontrarlo, intento a pazientemente e dottamente argomentare con gruppi di allievi che attenti gli facevano corona. Possa egli presto ritrovarsi tra quei giovani, a guidarne gli slanci ed arricchirne le menti.

Con tali sentimenti La prego di credermi.
Suo, Paolo Baffi

baffi_fregene_archivio_famiglia_baffiI professori possono diventare un riferimento se creano una relazione con gli allievi. È dalla qualità della relazione che dipende l’attenzione degli studenti, i quali apprendono per fascinazione. E infatti Baffi (ritratto nella foto qui a sinistra, tratta dall’archivio di famiglia), che lo aveva visto intrattenersi con passione con i suoi studenti, chiude la lettera sperando ardentemente che Moro “possa presto ritrovarsi tra quei giovani, a guidarne gli slanci, ad arricchirne le menti”.

In un Paese dove il numero dei laureati è molto più basso della media europea, dove la mobilità sociale è limitata, bisogna convincere le prossime generazioni a continuare a studiare, ad impegnarsi per “scavare, approfondire” (“Alla Normale si studiava come forsennati”, Carlo Azeglio Ciampi, cit.), a sollecitarli a non accontentarsi. In un mondo dove il fattore critico di successo è il capitale umano, è basilare mettere i meno fortunati, ma “capaci e meritevoli” (Costituzione italiana, art. 34) in condizione di continuare gli studi, per raggiungere quella parità nelle condizioni di partenza evocata da Luigi Einaudi.

A 40 anni da quei tragici 55 giorni, in cui tutta l’Italia era spaurita, attonita, preoccupata per le sorti di Moro (“Quanti italiani, donne e uomini, giovani e vecchi, hanno pianto di fronte a quelle immagini?”, si chiese lo storico Pietro Scoppola), è nostro dovere ricordare un politico serio, di un’intelligenza vivissima, attento alle esigenze della collettività. Se oggi fosse vivo, Moro verrebbe considerato un membro della casta, un politico da battere con la regola dell’uno vale uno. Ma senza le élite un Paese si arena, tutto preso da un rancore fortissimo verso chi ha studiato, ce l’ha fatta, ha migliorato il proprio status rispetto ai propri genitori. In una delle ultime lettere alla moglie Eleonora, Aldo Moro dal carcere brigatista scrive: “Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vede dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo…”.

La “luce” di cui parla Moro è certamente la speranza di un credente. Ma vorrei pensare a quanta luce i docenti appassionati come Moro riescono ad accendere nelle menti degli studenti. Come sosteneva Seneca, ognuno di noi ha al proprio interno una fiammella non ancora accesa. Sta al professore accenderla, con il pathos, il coinvolgimento, la forza delle idee. E per ogni discente non esiste una strada predefinita. Come scrive Massimo Recalcati nell’”Ora di lezione” (Einaudi, 2014) “Non esiste un sentiero ben definito in grado di condurre il soggetto al sapere, perché questo sentiero si crea, si traccia solo camminando. Il sentiero si fa solo nel movimento di chi lo percorre perché non esiste prima di esso”.

Il docente, come Socrate, deve farsi promotore della “mancanza attiva”, “al fine di emergere come amante del sapere, come colui che desidera la verità e non come colui che la detiene”. In tal modo si aprono teste, occhi, spazi, finestre e mondi impensati.

Ti sia lieve la terra, caro Aldo Moro.

Twitter @beniapiccone

P.s.: si consiglia di visitare http://www.aldomoro.eu/ dove l’Archivio Flamigni ha raccolto molti documenti (testimonianze, lettere, foto) sullo statista.