Immigrazione, è tempo di parlarne senza buonismi né demonizzazioni

scritto da il 28 Gennaio 2019

L’autrice di questo post è Vitalba Azzollini, giurista. Lavora presso un’Autorità di vigilanza. Scrive (a titolo personale), tra gli altri, su Lavoce.info, Phastidio.net e Istituto Bruno Leoni –

Nei giorni scorsi, Sergio Fabbrini ha trattato di immigrazione traendo spunto da una recente ricerca di More in Common, dalla quale emerge che un quarto dei cittadini è contrario per principio agli immigrati, un quarto è favorevole per principio ad ospitarli, mentre il restante 50 per cento è incerto su come conciliare sicurezza con solidarietà.

Secondo Fabbrini, una risposta a tale incertezza è possibile, ma a tre condizioni: innanzitutto, serve “riconoscere che non esiste un’emergenza migratoria” poiché gli sbarchi sono sensibilmente calati, anche se il problema resta “la presenza di circa 500.000 immigrati non regolarizzati. Di essi si è persa traccia nella narrativa dell’attuale ministro degli interni”. Considerato che servirebbero più di 80 anni per rimandarli nei loro Paesi di origine, “perché non si promuove una politica di integrazione per coloro che possono essere regolarizzati?”. In secondo luogo, occorre chiarire che “la politica migratoria include fenomeni diversi. Una cosa è l’immigrazione economica, altra cosa è l’arrivo di rifugiati che cercano asilo per ragioni umanitarie”.

La nuova legge sulla sicurezza, oltre ad aver eliminato la “clausola aperta” della protezione umanitaria, prevede misure che, lungi dal risolvere i problemi esistenti, rischiano – tra le altre cose – di aumentare il numero degli irregolari: invece, “la soluzione va trovata nel rafforzamento delle strutture amministrative e di polizia che processano le domande, oltre che nella richiesta che l’European Asylum Support Office si trasformi in un’agenzia federale in grado di agire autonomamente per affrontare le emergenze nazionali”. “Terza condizione: bisogna riconoscere che l’immigrazione economica è un’opportunità”, dato che essa “ha riequilibrato il calo o la stabilità delle nascite che si sono registrati in quasi tutti i Paesi europei”, ma ha anche consentito ai sistemi pensionistici europei di funzionare.

A questa terza condizione, esposta nell’articolo di Fabbrini ha replicato qualche giorno dopo Michele Geraci, Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico, secondo il quale si dovrebbe valutare non solo “se i migranti portino beneficio o meno al Paese”, ma anche se essi “portino beneficio al cittadino medio italiano. Posto così il quesito, la risposta fatica (per usare un eufemismo) a essere positiva”. Dopo aver svolto diverse argomentazioni in questo senso, Geraci conclude che, comunque, sarebbe difficile stabilire quale sia “il numero ottimale di migranti di cui l’Italia ha bisogno, e con quali competenze”.

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A queste ultime domande ha provato a rispondere chi si è occupato di immigrazione anche in termini di analisi di costi e benefici, in particolare quantificando il contributo degli stranieri all’economia del Paese e valutando anche numericamente l’apporto che sarebbe necessario essi fornissero in futuro. Innanzitutto, lo scorso luglio, il presidente INPS Tito Boeri ha sottolineato l’importanza degli immigrati regolari per l’equilibrio del sistema pensionistico italiano, ribadendo quanto detto in precedenza: con un “blocco di flussi di nuovi lavoratori extracomunitari”, per il 2040 l’Italia avrebbe “73 miliardi di euro in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate a immigrati, con un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps”. Ma la presenza di stranieri è funzionale a sostenere, oltre al sistema pensionistico, anche la ricchezza dei cittadini.

Lo spiega la Banca d’Italia in relazione a una tendenza in corso da anni: il calo demografico e il progressivo invecchiamento della popolazione. A partire dall’ultimo decennio del XX secolo “il dividendo demografico”, cioè “la crescita economica che, sul piano contabile, può derivare dall’aumento nella quota di popolazione in età lavorativa” è già divenuto negativo”.

Ma “gli sviluppi demografici sarebbero stati ancora più penalizzanti per l’economia italiana, se non fosse intervenuto negli ultimi 25 anni un significativo flusso migratorio in entrata”: ad esempio, “nel decennio 2001-2011, la crescita cumulata è stata positiva per 2,3 punti percentuali mentre sarebbe risultata negativa e pari a -4,4 per cento senza l’immigrazione”. “Ancora significativo è risultato il contributo della popolazione straniera per l’ultimo quinquennio: la flessione del PIL pro capite (-4,8 per cento) sarebbe stata nello scenario controfattuale di assenza della popolazione straniera più severa (-7,4 per cento)”.

Peraltro, “se si azzerassero i flussi migratori futuri e la componente di popolazione straniera già residente in Italia al 2016 assumesse parametri demografici (e.g. fertilità) identici a quelli dei nativi italiani (…) il livello del PIL aggregato risulterebbe dimezzato (…). Il livello del reddito pro capite nel 2061 risulterebbe inferiore di un terzo rispetto al livello del 2016 (…)”. E per compensare questi effetti negativi servirebbe ricorrere a misure come, ad esempio, “l’allungamento della vita lavorativa”. In altri termini, non sarebbe possibile conciliare l’attuale calo delle nascite, l’ostilità all’immigrazione e politiche pensionistiche quali quelle varate di recente.

Quanto alle competenze di cui gli immigrati dovrebbero essere provvisti per arrecare benefici al Paese, occorre ricordare che l’Italia già dispone di uno strumento, il decreto flussi, con cui a partire dal 2001 vengono pianificate le quote di cittadini stranieri che possono entrare in Italia per motivi di lavoro, in base ai fabbisogni emersi a seguito di consultazioni con soggetti quali regioni, parti sociali e organizzazioni sindacali.

Dal 2008 tale decreto è andato progressivamente perdendo consistenza, riducendo a poche migliaia gli ingressi programmati, che addirittura per il 2018 sono stati limitati a “conversioni di permessi di soggiorno o a specifiche categorie (come i lavoratori di origine italiana o i lavoratori autonomi)”. In passato lo strumento indicato è stato utilizzato anche in modo improprio: tuttavia, la valorizzazione del confronto con le parti interessate, ad esso sottostante, potrebbe consentire una politica di programmazione di flussi regolari d’ingresso in risposta alle reali necessità di manodopera.

Il tema dell’immigrazione è complesso e presenta profili diversi: importante è trattarne in termini oggettivi, valutandone ogni aspetto. La percezione dei cittadini nei confronti degli stranieri può essere positivamente influenzata anche da un dibattito pubblico che consideri i flussi migratori come un fenomeno da governare razionalmente: senza “buonismi” o demonizzazioni di sorta, ma cercando di capire come gestirlo al meglio pure in funzione di ciò cui esso può giovare. In questo senso, e non solo, il contributo di un’informazione corretta è essenziale.

Twitter @vitalbaa