Il reddito di cittadinanza e il vizio italiano di scegliere sempre il male minore

scritto da il 18 Febbraio 2019

Pubblichiamo una riflessione di Amanda De Pirro, dottoranda in Economics presso l’Università di Lancaster, Regno Unito – 

Nel suo post sul reddito di cittadinanza apparso su Econopoly lo scorso 12 febbraio, Gabriele Guzzi ha offerto un’interessante chiave di lettura riguardo l’utilità di questa misura per il paese. Alcuni punti meritano in special modo d’essere discussi.

È corretto argomentare che le critiche sull’ammontare eccessivo del reddito minimo, accusato di indurre una contrazione nell’accettazione di lavori a basso salario, sono frutto d’una visione miope. La questione cruciale, infatti, non è che “il reddito di cittadinanza sia troppo elevato in rapporto ai salari medi percepiti oggi in Italia” (Guzzi), bensì che quest’ultimi siano assolutamente non in linea con il livello complessivo di sviluppo del paese e ben al di sotto della media europea.

Va da sé che è il fatto che il salario medio si aggiri intorno ai mille euro mensili ad agire da deterrente al lavoro, non l’introduzione di una misura il cui ammontare, in particolare in alcune regioni, copre a malapena i fabbisogni personali. Tuttavia, a fronte di coloro che saranno coperti (e tralasciando le polemiche sul numero effettivo) da questa misura, bisogna considerare anche quell’ampio bacino di consumatori il cui reddito, non rientrando nelle soglie previste per poter beneficiare delle integrazioni, rimarrà sostanzialmente invariato, e con esso quei (pochi) consumi ad esso connessi.

Una domanda sorge legittima: non sarebbe stato meglio, allora, investire i propri sforzi, e il debito che stiamo accumulando, nel tentare di adeguarci agli standard degli altri paesi europei, stimolando le imprese ad allineare le retribuzioni, innalzando i contributi alla ricerca e a coloro che vi lavorano, e in sostanza colmando il “gap iniquo tra il contributo effettivo apportato dai lavoratori e la loro retribuzione in termini reali”(Guzzi)?

L’autore, pur sollevando questo punto, non sembra ritenerlo in contraddizione con l’introduzione del reddito di cittadinanza. Anzi, quest’ultimo potrebbe avere addirittura il pregio di ricondurci ad una struttura meno “capitalista”, più a favore della classe lavoratrice, nell’ottica di sostenere una maggiore equità e combattere le disuguaglianze sociali che sono state la conseguenza più pesante dell’ondata globalizzatrice degli ultimi trent’anni.

Temo che questo argomento, sebbene economicamente sia tra i più meritevoli di dibattito, si presti malamente a spiegare le dinamiche politiche italiane e generi ulteriore confusione su quelle che sono le reali esigenze del paese. I motivi per cui il reddito di cittadinanza è finito all’interno dell’agenda setting, saturando la comunicazione politica fino ad oscurarne ogni altro punto, hanno ben poco a che vedere con Keynes e Kalecky. Magari lo avessero. A prescindere dalla correttezza ideologica o meno, la realtà brutale è che per attuare questa misura sono state inevitabilmente sottratte risorse ad altri settori, ad altre misure che sarebbero state forse meno popolari – soprattutto, meno comprensibili – ma più corrette, e sostenibili. Il gioco della politica sottostà, e noi italiani dovremmo capirlo una volta per tutte, a dei vincoli di bilancio che per quanto appaiano scomodi, sono necessari. Il dover agire entro determinati confini dovrebbe peraltro essere un incentivo a chiarire preventivamente le aree di intervento che richiedono maggiore attenzione e su queste modellare le decisioni di bilancio con la consapevolezza che ognuna di queste ha un target specifico.

Ma qual è esattamente l’obiettivo di questa manovra? Si parla molto di welfare, di assistenzialismo, ma anche di crescita e riduzione del tasso di disoccupazione, specie tra i più giovani. Su questo punto nasce il mio criticismo. Si tratta di obiettivi sì correlati, ma diversi, e come tali necessitano di strumenti ad hoc. Ritenere che una singola manovra possa agire su entrambi i fronti è un grossolano errore tecnico, oltre che politico. Per ridurre il tasso di disoccupazione bisogna creare lavoro, o meglio: creare le condizioni affinché le imprese, che nel sistema attuale sono le uniche in grado di trainarne la domanda, siano incentivate a farlo.

Migliorare le connessioni sul mercato del lavoro, puntare sulla formazione di giovani che sono già per la maggior parte iperqualificati, offrire modesti incentivi per le assunzioni e, non ultimo, sbandierare la liberazione di nuovi posti grazie ad una fetta di neo-pensionati, non è assolutamente sufficiente. Le stime della Banca d’Italia parlano chiaro. Complici le instabilità del commercio internazionale e il rallentamento dell’attività economica, nel triennio 2019-2021 si prevede un’ulteriore deterioramento della fiducia delle imprese che, abbinato all’incremento dei costi di finanziamento, porterebbe ad una nuova compressione della spesa per gli investimenti (Banca d’Italia, 2019). Per quanto i trasferimenti connessi con il reddito e le pensioni di cittadinanza interessino prevalentemente famiglie caratterizzate da una propensione al consumo elevata, non possono essere considerati uno stimolo efficace, specie se confrontati con il rallentamento congiunturale atteso. Il reddito di cittadinanza è, nei fatti, una misura puramente assistenzialista, fatta ad uso e consumo di un paese che è culturalmente portato a scegliere il male minore, e come tale deve essere considerata, senza attribuirvi ulteriori poteri taumaturgici.

L’equità di cui si è accennato sopra è senz’altro un principio importante. Ma è equità innanzitutto garantire che i propri cittadini abbiano un’esistenza dignitosa disegnando un sistema che consenta loro di farlo, e di farlo con i propri mezzi. Equità è garantire un agevole e indifferenziato trattamento giuridico e burocratico, l’accesso ad un sistema educativo avanzato, l’assenza di discriminazioni sul lavoro. In sintesi, molti dei tratti che l’economista Daron Acemoglu ha associato alle istituzioni “inclusive”, capaci cioè di incoraggiare e favorire la partecipazione della maggioranza della popolazione ad attività economiche, facendo leva sui talenti e sulle abilità di ciascuno.

Miracolosamente, questi sono gli stessi criteri che le imprese prendono in considerazione quando decidono di investire in un paese. Ed ecco che quanto più uno stato è in grado di garantire il funzionamento virtuoso delle proprie istituzioni, tanto più facilmente si svilupperanno altrettanto virtuose e sinergiche strutture economiche, e tanto minore sarà l’intervento necessario. Purtroppo, ancora una volta sembra che in Italia si sia arrivati alla conclusione contraria: ricorrere a interventi assistenzialisti per rimediare a distorsioni che lo Stato stesso (attenzione, lo Stato, non il mercato) ha contribuito, per la maggior parte, a produrre.

LinkedIn: Amanda De Pirro 

Citazioni: Banca d’Italia. Proiezioni macroeconomiche per l’Italia – gennaio 2019. Estratto del Bollettino economico n. 1 – 2019.