Il diffuso vizio del presentismo nelle analisi sul declino italiano

scritto da il 04 Marzo 2019

Spesso i commentatori di cose italiche tendono a concentrarsi troppo sul presente, sul governo giallo-verde, sulla congiuntura tedesca, sui rimbrotti della Commissione Europea, facendo perdere di vista i fattori di arretratezza storica, che rendono la crescita italiana anemica da almeno 25 anni.

Contano i tempi lunghi, evocati da Luigi Einaudi.

Perché si parla così poco di scuola? Perché è un investimento strutturale, che ha riflessi positivi nel lungo termine. La politica vive nel breve termine, ha orizzonti limitati, guarda alle prossime elezioni. Statisti che guardano alle prossime generazioni se ne vedono ben pochi. Come ha scritto Corrado Augias, “la politica diventa immorale anche quando smarrisce ogni obiettivo di lunga portata, ogni capacità, o volontà progettuale per limitarsi a vivacchiare in attesa del prossimo sondaggio o scadenza elettorale”.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenuto in settimana alla Iulm a Milano, ha detto che la politica dovrebbe progettare il futuro: “Non aspiro che il nostro Paese ragioni in termini di secoli…Sarebbe ampiamente sufficiente, e ne sarei soddisfatto, se ragionasse in termini di decenni”.

Nel mio ultimo volume “L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti” (Il Sole 24 Ore editore) cerco di guardare al di là della siepe, analizzando i nostri fattori di arretratezza storica: il potere della famiglia, l’esigua concorrenza e l’inefficienza delle istituzioni.

La famiglia ha un potere immenso in Italia. È un fattore di sviluppo? O di arretratezza? Le medie imprese, la nostra forza, la forza ascendente del Paese, sono diventate resilienti poiché sono fuggite dalla logica del familismo, hanno adottato strategie di lungo termine partendo dalla scelta di un management professionale, non necessariamente legato all’ambito familiare. Separare le sorti delle imprese dalle famiglie che le hanno fondate e cresciute è una missione difficile ma non impossibile. La complessità viene dall’importanza nella storia italiana della famiglia in quanto tale.

Luigi Barzini ci ha deliziato con la descrizione della famiglia italiana. Nel 1964, l’anno successivo alla stretta monetaria Carli-Colombo, l’inviato speciale del «Corriere della Sera» ha fatto capire al mondo quale sia la rilevanza dei legami familiari in terra italiana: “Il primo centro di potere è la famiglia. La famiglia italiana è una cittadella in territorio ostile: entro le sue mura e tra i suoi componenti, l’individuo trova consolazione, soccorso, consiglio, nutrimento, prestiti, mezzi, armi, alleati e complici che lo aiutano nelle sue imprese. Nessun italiano che abbia famiglia è solo. Egli vi trova un rifugio in cui leccare le proprie ferite dopo una sconfitta, o un arsenale e i suoi collaboratori per una offensiva vittoriosa. […] In effetti, la legge, lo Stato e la società funzionano soltanto se sono bene accetti e non ostacolano direttamente i supremi interessi della famiglia. Qualcuno ha detto che l’Italia non è una nazione, ma una federazione di famiglie. Leo Longanesi voleva che sulla bandiera bianca, rossa e verde venisse scritto, come motto nazionale: «tengo famiglia», la spiegazione e la giustificazione di tutto”.

Lo storico Sergio Romano pensa che l’Italia continui a essere un «paese familistico in cui tutti – partiti politici, gruppi di pressione, ordini professionali, associazioni corporative e sindacati – sono impegnati in una contrattazione permanente che si conclude generalmente senza vinti né vincitori: un esito che garantisce una lunga discesa sul piano inclinato della mediocrità» .

In relazione alla concorrenza, bene pubblico, è opportuno ricordare come l’ex presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo fece molta fatica a organizzare il Convegno di Vicenza – 17/18 marzo 2006 – incentrato sul tema della concorrenza. Alla fine però riuscì finanche a convincere gli oligopolisti associati – i cosiddetti incumbent – della necessità di una discussione pubblica sul valore della concorrenza. Purtroppo l’intervento del presidente del Consiglio Berlusconi e lo scambio di apprezzamenti con Diego Della Valle – «Gli imprenditori che stanno a sinistra hanno scheletri negli armadi, sono sotto il manto protettivo della sinistra e di Magistratura democratica»; «Prego il signor Della Valle, se si rivolge al presidente del Consiglio, di dargli del lei e non del tu» – misero nel dimenticatoio l’intervento esemplare di Francesco Giavazzi, dove si evidenziava l’abnorme differenza nel margine operativo lordo tra imprese aperte alla concorrenza internazionale e imprese operanti in settori protetti.

Siamo ancora qui. La concorrenza è un valore, “purché non tocchi il mio orticello”. Sono passati quasi 13 anni dal marzo 2006 e i passi avanti nella direzione auspicata sono stati decisamente pochi. E infatti l’Italia da 15 anni cresce ogni anno oltre un punto di PIL meno della media degli altri Paesi Euro.

Per compiere una valutazione dei benefici possibili di una maggior concorrenza nel nostro Paese è utile rifarsi ad un Working Paper della Banca d’Italia dove si fornisce una valutazione quantitativa degli effetti macroeconomici di un incremento in Italia del grado di concorrenza nei settori dei servizi non commerciabili internazionalmente. La sintesi è molto chiara: “In Italia i settori che producono servizi non commerciabili internazionalmente (commercio, trasporti e comunicazioni, credito e assicurazioni, costruzioni, elettricità, gas, acqua, hotel e ristoranti) rappresentano circa il 50 per cento del valore aggiunto complessivo. In questi settori il grado di concorrenza, sulla base di confronti tra paesi OCSE, è relativamente basso. Barriere all’entrata, regolamentazioni sui prezzi e/o limitazioni alle forme di impresa garantiscono alle imprese potere di mercato, permettendo loro di applicare margini di profitto (markup) elevati rispetto ai costi. Secondo i dati OCSE, per l’Italia il markup medio nei settori dei servizi sarebbe pari al 61 per cento, contro il 35 per cento nel resto dell’area dell’euro e il 17 per cento nei settori che producono beni e servizi sottoposti alla concorrenza internazionale”.

Chi mi legge sa che sono un maniaco delle citazioni. Qualcuno ha l’ardire di pensare che io non abbia una mia idea, per cui cito. Ma per citare, cari miei, bisogna aver letto lo scibile umano. E contestualizzarlo. Faccio miei i “Sepolcri” del Foscolo: “A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti”. Chi non c’è più, è ben vivo con i suoi insegnamenti sempiterni.

Per esempio, in relazione all’inefficienza delle istituzioni, Aldo Moro in una relazione del febbraio 1978 scrisse che l’Italia è un Paese “dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili”. L’Italia ha quindi bisogno di politiche di mutual endorsement, ossia di azioni di struttura condivise da tutto il quadro politico. La lotta alla mafia e alla corruzione non ha colore politico. La riduzione del debito pubblico serve a tutelare il benessere delle nuove generazioni. Dovrebbero essere priorità condivise. Come scriveva Paolo Sylos Labini, l’intelligenza delle persone si giudica dalla gerarchia nell’ordine delle priorità. Se un Paese inverte queste ultime, commette un errore strategico decisivo.

P.S.: da domani, martedì 5 marzo, in edicola in abbinamento col “Sole 24 Ore” (+9,90 euro), potete trovare il mio volume “L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti” (Il Sole 24 Ore editore). In libreria da metà aprile.

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