Il debito pubblico non è un problema, ma solo per chi se lo può permettere

scritto da il 28 Marzo 2019

L’ultimo Bollettino economico della Bce pubblica un approfondimento dedicato al paper di cui avevamo discusso nei giorni passati, nel quale l’autore, Oliver Blanchard, arguiva che il debito pubblico non è fonte di problemi per un’economia a patto di avere un tasso di crescita sempre maggiore rispetto al costo complessivo del debito. L’articolo della Bce è un’ottima occasione per fare un passo in avanti e guardare anche altri aspetti del problema, con particolare riferimento al caso europeo, visto che lo studio era riferito agli Stati Uniti.

La premessa è che le analisi di sostenibilità del debito pubblico guardano al differenziale fra il tasso medio di interesse sul debito e il tasso di crescita nominale come una delle principali variabili da considerare. Meglio ricordarlo perché queste considerazioni vengono effettuate da chi poi questo debito decide o no di comprarlo. E quindi indirettamente lo prezza.

Nel corso di un anno il debito pubblico di un paese aumenta in gran parte in ragione della somma pagata per gli interessi sul debito accumulato e del disavanzo primario, ossia la spesa in eccesso rispetto alle entrate al netto del pagamento degli interessi. Il cambiamento del debito in rapporto al Pil, di conseguenza, è determinato dal saldo primario e dalla differenza fra tasso di interesse e tasso di crescita. Ciò significa che se il differenziale fra tasso di interesse e tasso di crescita ( − ) è strettamente positivo, e quindi pago più interessi di quanto cresco, è necessario che il saldo primario generi un avanzo fiscale per stabilizzare o ridurre il rapporto debito pubblico/Pil.

“Quanto più alto è il livello di debito iniziale, tanto più elevato sarà l’avanzo primario necessario”, sottolinea il Bollettino. Se invece succede che il differenziale − è persistentemente negativo (<) allora il rapporto debito pubblico/Pil può ridursi anche in caso si verifichino disavanzi primari di bilancio, purché ovviamente siano inferiori all’effetto che l’andamento del differenziale ha sul debito”, sottolinea.

A fronte di questo quadro teorico, il paper di Blanchard ha avuto l’effetto di riaccendere la discussione e questo spiega anche l’interesse della Bce sul tema. Premesso che la modellistica comunemente utilizzata “non arriva a formulare conclusioni chiare riguardo al segno e alle dimensioni del differenziale tra crescita e tassi di interesse sul debito pubblico”, si può far uso di analisi empiriche che rilevano come “nelle economie avanzate mature il differenziale tra crescita e tassi di interesse,  che rileva ai fini della dinamica del debito pubblico, si è mantenuto positivo per periodi più lunghi”. Proprio come osservato nell’analisi di Blanchard per gli Usa. Questo non vuol dire che sia stato così per tutti o costantemente, come si può osservare nel grafico sotto.

Come si può osservare, per l’Italia nei quasi vent’anni intercorsi fra il 1999 e il 2017, la differenza fa i e g è stata positiva di oltre due punti percentuali. Quindi la crescita non è stata sufficiente a pareggiare i costi del debito, “costringendo” il paese a sviluppare costantemente avanzi primari. Un caso praticamente unico nell’eurozona, che sembra destinato a perpetuarsi. “Secondo le previsioni dell’autunno 2018 della Commissione europea, nel 2017 tutti i paesi dell’area dell’euro, a eccezione dell’Italia, hanno registrato differenziali − negativi. Sebbene le proiezioni prevedano un aumento del differenziale in 12 paesi dell’area entro il 2020, questo valore dovrebbe rimanere in territorio negativo per tutti i paesi, a eccezione dell’Italia”.

Per completare il quadro teorico, va ricordato che anche nel caso di − negativo, quindi di interessi inferiori alla crescita, disavanzi primari persistenti impediscono la stabilizzazione del debito/Pil. Al contrario, se si sviluppano avanzi primari a fronte di  differenziali − negativi si arriva a una diminuzione del debito. Il caso più esemplare è quello tedesco, che è in surplus fiscale dal 2014 e si sta avviando a un rapporto debito/Pil inferiore al 60%.

Blanchard nel suo paper, inoltre, ricordava che dagli anni ’80 il tasso di interesse in calo in tutte le economie. Ma questo, sottolinea la Bce, “in qualche misura ciò si applica anche al tasso di crescita del Pil. In particolare, a partire dagli anni ’80 del Novecento i tassi di interesse reali nelle economie avanzate hanno cominciato a scendere e, all’indomani della crisi finanziaria mondiale, hanno toccato livelli eccezionalmente bassi”.

Al di là delle ragioni che guidano questi processi, sulle quali il dibattito è quanto mai aperto, è degna di nota un’altra conclusione a cui arriva la Bce, ossia che “le condizioni cicliche e la politica economica sembrano svolgere un ruolo importante” nelle vicende del debito di un paese. In particolare “il differenziale può crescere rapidamente nelle fasi di recessione, specialmente nei paesi con livelli di debito elevati. Più in generale, si riscontra che a posizioni di bilancio più deboli (debito e disavanzo più elevati) corrisponde un più alto valore di −”. La tavola sotto sembra corroborare questa congettura.

Si osserva infatti che il differenziale cresce, in media, di più quando il debito pubblico è elevato (maggiore o uguale al 90 per cento del Pil) e che nei periodi di rallentamento dell’economia, il differenziale tende ad aumentare, com’è logico se pensate a come si definisce.

In sostanza, il debito pubblico non è un problema, a patto di poterselo permettere, nel senso che il costo è inferiore a quello della crescita, e di non cumularlo, perché in questo caso aumentano le possibilità che il differenziale diventi sfavorevole. Il caso dell’Italia, purtroppo, è una chiara dimostrazione di queste circostanze. “Un debito pubblico elevato pone notevoli sfide economiche”, conclude la Bce. Spesa pubblica e investimenti efficienti possono incrementare il potenziale di crescita di un paese nel medio termine, aggiunge, ma gli attuali livelli di debito elevati in molte economie stanno ostruendo questi canali, in particolare la capacità di attuare politiche di bilancio anticicliche nelle fasi di congiuntura sfavorevole”. Il debito, insomma, è uno strumento che offre opportunità e altrettante controindicazioni. Se si esagera, rimangono solo queste ultime.

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