Giustizia, l’elefante in salotto che tutti vedono ma ignorano

scritto da il 23 Maggio 2019

L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –

Piove, come non accadeva da anni, e non solo sui pini e sulle ginestre di questa primavera in ritardo, ma anche sulla favola bella che ieri ci illuse e oggi non ci illude più.

Dalle nuvole sparse piovono emendamenti sul decreto crescita, con un crepitio che varia secondo i sondaggi delle prossime elezioni. Ma sulla crescita piovono anche i giudizi dell’ultimo rapporto OCSE sull’Italia, che provengono da un confronto impietoso con la crescita degli altri paesi OCSE (si veda il grafico in basso).

In questa lunga stagnazione si sono susseguiti 11 governi, che hanno sempre approvato riforme dai toni enfatici, ma senza riuscire a invertire il corso del nostro declino, mentre altri paesi crescevano con toni più sobri, ma scelte più efficaci.

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Il cuore di tutte le riforme economiche del nostro ventennio perduto è sempre stata la politica fiscale, che però non ha mai dato risultati apprezzabili, sia perché la nostra pressione fiscale è sempre stata fra le più alte al mondo – per la zavorra di debito, i vincoli di bilancio e l’economia sommersa che ci affliggono da decenni – sia perché altri paesi hanno sempre avuto politiche fiscali più attrattive delle nostre, sia soprattutto perché la nostra stagnazione non è dipesa (solo) da ragioni fiscali, ma (anche) da ragioni strutturali.

Anche il decreto crescita propone immancabilmente vecchie formule: oltre due terzi sono misure di politica fiscale (superammortamenti, mini-IRES, deduzioni IMU, agevolazioni edilizie di vario genere, patent box, rientro dei cervelli, strumenti convertibili, aggregazioni di imprese) molte sono di sostegno a piccole e medie imprese (Sabatini quater; sostegni alla capitalizzazione, fondi e garanzie per PMI) altre riguardano settori suggestivi e di moda (start-up, economia circolare, digital transformation, marchi storici, italian sounding), altre infine con la crescita c’entrano poco o nulla, ma vanno a placare gli animi o a infiammare l’amor patrio (rottamazione ter, indennizzi ai risparmiatori, Alitalia).

Insomma, una pioggia di caramelle per i grandi e piccoli (soprattutto piccoli) dimenticati dalle piogge precedenti, che sembra preludere a un dividendo elettorale fra le piccole e medie imprese, dopo quello trainato, fra giovani sdraiati e anziani reazionari, dal reddito di cittadinanza, quota 100 e porti chiusi.

È interessante notare come nessuna delle indicazioni del rapporto OCSE sia stata recepita dal decreto crescita. Forse perché la retorica di governo riesce a ironizzare facilmente sulle ricette di certi “professoroni”, recepite dalle manovre dei governi precedenti senza invertire declino; tanto vale provare qualcosa di diverso, è facile rispondere. Ma è anche vero che i paesi che le hanno realizzate meglio e con più coraggio sono oggi in condizioni migliori del nostro. E poi fra le riforme indicate dai “professoroni” restano due grandi assenti: quella della pubblica amministrazione e quella della giustizia.

La riforma della pubblica amministazione non si è realizzata per diverse ragioni, che però si possono ridurre a una sola: è complessa. Ed è tanto più complessa in quanto non può prescindere da un’azione di governo assidua e scrupolosa, da importanti riforme costituzionali – in primis quella del famigerato Titolo V della Costituzione – e da una profonda riforma della giustizia, poiché l’azione della pubblica amministrazione s’impronta a quella della giustizia: non solo amministrativa, ma anche tributaria, penale e pure civile.

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Sul timpano della Corte Suprema di New York è scolpita una nota frase di George Washington: “La vera amministrazione della giustizia è il più saldo pilastro del buon governo”: in Italia è l’elefante in salotto che tutti vedono, ma ignorano. Eppure il confronto della giustizia italiana con quella di altri paesi è perfino più impietoso di quello della crescita. L’anomalia del nostro sistema giudiziario sbalordisce innanzitutto per i numeri: dalle poche decine di processi delle Corti Supreme americane e inglesi, alle parecchie decine di migliaia (!) della Corte di Cassazione italiana, dall’analisi della Banca Mondiale sulla difficoltà di far valere un contratto in Italia – più che in Nigeria, Sierra Leone, Tonga, Uganda e oltre cento altri paesi – al primato dell’Italia nei procedimenti (e nelle condanne) della Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo per la lentezza dei processi: circa un quarto di tutti quelli dei 47 paesi del Consiglio d’Europa, di cui fanno parte paesi come Armenia, Azerbaigian, Russia, Turchia e Ucraina.

Si potrebbe proseguire con le migliaia di processi penali prescritti, di intercettazioni telefoniche a pioggia, di custodie cautelari sconsiderate e di sentenze contraddittorie: tutti numeri astronomici e assurdamente smisurati rispetto a quelli dei paesi sviluppati, e pure gran parte di quelli sottosviluppati, tanto da far pensare che è un miracolo se riusciamo ancora a galleggiare senza affondare.

A prescindere da questi dati, è risaputo che l’inefficienza e l’imprevedibilità della nostra giustizia freni gli investimenti e la crescita. “Scopo fondamentale di un governo è di creare un sistema giudiziario che produce risultati efficienti, equi e prevedibili” diceva pochi anni fa l’ex ambasciatore americano John Phillips agli studenti della Bocconi “l’Italia ha questo sistema? La risposta che molti investitori mi hanno dato è, semplicemente, ‘no’. Ed è questa la principale ragione per cui decidono di non investire in Italia”.

Tutti gli indicatori e tutte le testimonianze sulla nostra stagnazione sembrano dunque convergere verso un unico indiziato: l’inefficienza e l’incertezza della nostra giustizia. Perché, dunque, non l’abbiamo ancora riformata? Perché la sua riforma è ancora più complessa di quella della pubblica amministrazione: occorre mettere mano a intricati ingranaggi della macchina dello Stato, a cominciare da un ordine costituzionale che impedisce di adottare modelli più efficienti, ma anche riformare un sistema in cui la giustizia è ridotta a svolgere una funzione di “supplenza” della classe dirigente.

D’altra parte questa funzione di supplenza della giustizia è stata aspramente criticata dall’ex giudice “pentito” Piero Toni, nel suo libro del 2015 “Io non posso tacere”, che a dire del vero non ha fatto molto scalpore. Stranamente, o forse no, perché molti ritengono ancora che questa funzione di supplenza della giustizia resti un argine al dilagare di una classe dirigente mediocre e clientelare, che altrimenti degenererebbe in bande che si spartiscono l’economia e il territorio.

Se non c’è limite al peggio, non si può certo dire che nella sua funzione di supplenza – ammesso che sia giustificata – la giustizia abbia fatto un gran buon lavoro; inoltre non si può escludere che una visione deformata della nostra classe dirigente come “corrotta salvo prova contraria” rischi di trasformarsi in una profezia autoavverantesi, essendo evidente che l’eccessiva esposizione al rischio di responsabilità penali finisca per attirare i soggetti più spregiudicati, o che non hanno nulla da perdere.

Ci troviamo quindi in un gioco dove nessuno coopera per trovare una soluzione migliore. Districarsi da questo tipico “equilibrio di Nash” appare molto difficile, ma per non perdere il buon umore ci viene in soccorso l’imperdibile vignetta di Altan sull’ultimo ritrovato italiano: la matassa senza bandolo.

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