Con o contro Salvini? Così la narrazione politica oscura l’economia

scritto da il 04 Giugno 2019

Niente nella vita va temuto, dev’essere solamente compreso. Ora è tempo di comprendere di più, così possiamo temere di meno

M. Curie

Oggi, ossia in questo ‘ristretto’ presente storico-politico, si fa parecchia fatica a produrre un documento d’oggettiva informazione economica: non perché manchino gli argomenti o, soprattutto, le buone intenzioni e gli autori lucidi e imparziali, ma perché i grandi temi dell’economia e della finanza che, sulle prime, erano stati semplicemente coperti, nascosti e rimandati alla figura ora dell’uomo simbolo ora del partito simbolo, in ultimo, invece, sono stati materialmente soppiantati, nella narrazione, da una spasmodica e ossessiva ricerca di gloria e clamore. Di conseguenza, chi scrive e si sforza di recuperare certi contenuti è costretto molto spesso, volente o nolente, a schierarsi con qualcuno, sottraendo, a propria volta, altro spazio alle questioni decisive. È questo, di fatto, il successo di Salvini: egli ha generato un meccanismo di scissione che neppure la voga berlusconiana aveva determinato: dunque, nell’oggi annunciato in apertura, si deve decidere, anzitutto, se essere salviniani o meno e, in quest’ultimo caso, dichiararsi, giocoforza, anti-salviniani. Sembra non esserci alternativa.

Nel 1994, Silvio Berlusconi esordì in modo trionfale proprio grazie a una primitiva personalizzazione della scena politico-economica ed ebbe gioco facile nello sbarazzarsi del frastornato e incredulo Occhetto. La sua operazione tuttavia restò incompiuta sia perché le vicende giudiziarie ne indebolirono, a poco a poco, la credibilità sia perché egli stesso, nonostante tutto, e la sua squadra, a prescindere da lui, mantenevano, tutto sommato, un profilo istituzionale.

Matteo Salvini, il campione del gesto clamoroso, a differenza di tutti i predecessori, ha portato la politica dentro la propria casa, se n’è impossessato adattandola alle proprie abitudini e ai propri vizi. Così, è diventato normale parlare di bilancio dello Stato, di disoccupazione o di giustizia mangiando un hamburger o riempiendosi la bocca di pasta asciutta o, addirittura, baciando un rosario. I salviniani non si curano di grafici e dati, anzi spesso, rivolgendosi ai propri elettori, li manipolano a piacimento; la qual cosa – intendiamoci! – non implica affatto che non li conoscano, ma significa esattamente che entrare in taluni meriti di studio non è più utile alla causa del consenso.

Possibile che la gente non voglia più saperne?

Un rilevamento socio-linguistico è doveroso: l’economia sta per scomparire del tutto dal dibattito e la comunicazione che la riguarda è ormai affidata a metafore di scopo. L’esodo linguistico dall’economia, com’è naturale, s’è esteso al paese e, sui social network, è diventato una sorta di rituale dell’iperbole e della finzione giustificativa.

Uno dei primi esempi che intendiamo sottoporre al vaglio critico del lettore e che, a nostro modo di vedere, è causato dalla già descritta esautorazione della dottrina è il perenne, smodato e ingiustificato accostamento tra Italia e Giappone in fatto di debito pubblico. In pratica, quando qualche autore sostiene che un Ministro della Repubblica non può permettersi di mettere a repentaglio la tenuta debitoria del paese proponendo il 3% di deficit o, diversamente (ma non molto), quando qualcun altro suggerisce cautela in materia di spesa in deficit, sbuca fuori l’economista occulto – o represso, chissà – a ‘urlare’ lo slogan sovranista “e allora il Giappone?”.

Vien fatto di chiedersi, a questo punto, come si formino determinati blocchi di pensiero e, in particolare, quale input ne abbia originato l’effetto sharing. È vero: Il Giappone ha un debito pubblico molto superiore a quello dell’Italia. Consultando la sezione statistica dell’OECD, si apprende facilmente che il suo debito, stimato nel quarto trimestre del 2018, era pari a 11.640,680 miliardi di dollari, mentre quello italiano corrispondeva a 2.658,640 miliardi di dollari. In pratica, stiamo facendo un confronto tra un paese il cui debito è al 240% del PIL e uno il cui debito è appena al di sopra del 130% del PIL; la qual cosa dovrebbe essere sufficiente a tacitare gli europeisti. D’altronde, dalle parti del Sol Levante, si ha pure la garanzia di una banca centrale sempre pronta ad acquistare debito pubblico, come sogliono dire i paladini della banconota sovrana. Cos’altro aggiungere, specie se si considera che l’aumento della ‘massa monetaria nipponica’ non ha neppure causato impennate dell’inflazione?

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In verità, a dispetto dell’apparenza, sul motivo per cui il paragone tra Italia e Giappone è assurdo si può dire più di quanto in genere si sia disposti a dire. Come ha fatto notare Alessandro Penati in un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il debito giapponese è ormai un vero e proprio mito. Cominciamo col dire che il Giappone è il terzo paese al mondo per Prodotto Interno Lordo, dopo Stati Uniti e Cina, e aggiungiamo che la sua spesa per interessi è molto bassa. Quest’ultimo dato è molto significativo perché configura un paese che impiega il 10% della spesa in investimenti pubblici, quasi il doppio rispetto a quello dell’Italia, come ha opportunamente scritto Penati nell’articolo summenzionato. L’Italia, in particolare, nell’ultima previsione di bilancio per il 2019, ha fatto registrare un 5,7% di spesa in conto capitale.

A rendere ancora più insostenibile il confronto però intervengono tanti altri fattori, tra i quali ne citiamo tre come decisivi: una pressione fiscale inferiore di ben 12 punti percentuali, un elevato saggio di risparmio storico, che l’Italia non ha mai potuto vantare a tal punto, e un ‘coefficiente’, per così dire, d’innovazione tecnologica da cui il nostro paese è molto lontano. Secondo il Global Innovation Index, una classifica annuale redatta dalla Cornell University, dalla Business School Insead e dalla World Intellectual Property Organization, l’Italia, nel 2018, s’è piazzata al 31° posto con 46,30 punti, mentre il Giappone è risultato 13° con 55 punti netti, quasi 10 in più rispetto a noi. Considerando che l’innovazione tecnologica stimola la domanda, che gl’investimenti in infrastrutture creano un legame macroeconomico tra il presente e il futuro, rendendo più sostenibile ogni forma di debito, e che ‘poter contare sul risparmio’ vuol dire avere a disposizione fondi mutuabili, come si può continuare a cuor leggero a fare accostamenti di politica economica tra i due paesi?

I paradossi dell’economia occulta, quella da ‘account mascherato combattente’ – per intenderci –, nascono sani e forti proprio perché sono protetti fin dalla nascita da un presidio linguistico entro il quale si evita appositamente e strategicamente di parlare degli aspetti tecnici e sistemici dell’economia e, se e quando lo si fa, di certo si sta attenti ad esser vaghi: ciò che conta è l’enfasi, anche in assenza di dati, grafici e precisi riferimenti, come s’è già detto. L’assenza d’una sorgente critica priva di limiti comportamentali e vincoli epistemologici l’utente medio, che, a quel punto, si arroga il diritto di teorizzare e fare proselitismo.

Seguendo l’eco di “prima gli italiani”, ci riuscirebbe facile addurre un altro esempio simile a quello che vede molti italiani, tuttora, correre appresso ai complotti della mega-finanza a discapito dell’Italia, ma, consapevoli di avere uno spazio ridotto, né più né meno di quello di un articolo, intendiamo prestare attenzione a un fenomeno messo in evidenza, il 24 maggio scorso, da Mari Miceli proprio su Econopoly: l’incidenza dei fondi europei sullo sviluppo economico del paese. Perché assumiamo questo argomento quale focus nell’ambito di un contributo incentrato sul rapporto tra economia e narrazione politica? Perché l’appartenenza all’Unione Europea, molto di frequente, è denunciata quale causa del dissesto, laddove accertiamo che, grazie all’agenda 2014-2020, l’Italia è stata destinataria di 46,5 miliardi di fondi strutturali europei, di cui peraltro, finora, è stato speso solo il 23%.

ESI funds

ESI funds

Dato che l’Italia risulta sest’ultima nella programmazione di spesa, tanto da essere non di rado costretta a restituire i fondi, in specie quelli destinati al Sud, sarebbe stato per lo meno auspicabile che il nuovo Governo si fosse occupato immediatamente della ristrutturazione dell’apparato amministrativo-burocratico. Se fossimo anche lontanamente complottisti, dovremmo pensare che nessuno se ne sia occupato a bella posta, così da poter additare l’Europa. Non a caso, la Germania, fin dall’agenda 2000-2006, dimostrando grandi capacità di gestione dei fondi, ha potuto trarre grande vantaggio dalle politiche europee di sviluppo economico.

Tutti noi ricordiamo ancora l’eccessiva generosità con cui Salvini (…ma non solo lui!) disse ai propri elettori che l’Italia contribuisce con circa 20 miliardi di euro al bilancio europeo. Allo stesso modo, dovremmo sapere che questi numeri sono falsi, infondati e assurdi, specie se formulati da un cosiddetto vice-premier. Nel 2017, per esempio, l’Italia ha ricevuto quasi 10 miliardi e ne ha versati 12. Simile è stata la differenza nel 2016: più di 13 miliardi versati contro più di 11 miliardi ricevuti. Il saldo è indubbiamente negativo. Ciò che conta tuttavia non è il freddo dato algebrico. Dobbiamo, al contrario, analizzare la la composizione della spesa di bilancio, la sua finalità, contenuti, questi, di cui nessuno parla o ha mai parlato adeguatamente e che i cittadini hanno il diritto di conoscere. I paesi membri gestiscono esattamente l’80% circa dei fondi UE e l’elenco delle organizzazioni e delle imprese che ne beneficiano è pubblico. Che dire dei programmi di sviluppo regionale, degli incentivi alla ricerca, all’innovazione e delle opportunità di studio? Di seguito, a beneficio della trasparenza d’informazione, pubblichiamo il diagramma del bilancio UE 2017, fedelmente riportato dal sito dell’Unione.

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Tre ‘moduli di contrasto’ dialettico sono pochi: è evidente; e ci scusiamo coi lettori per l’incompletezza del contributo, ma, nello stesso tempo, li invitiamo a considerare la necessità, incombente e improcrastinabile, di riproporre un approccio epistemologico alla discussione economico-finanziaria. Per la composizione d’un bilancio è del tutto inutile e fuorviante attribuirsi l’estro d’un bohémien reinventato e mostrare afflizione per le sorti del paese ribellandosi contro il sistema: forse, può apparire eccitante e accattivante, ma, alla lunga, è distruttivo. Occorre solo studiare e ristudiare. E, quando s’è finito, ripassare insistentemente ciò che s’è ristudiato, con o senza etichetta.

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