Pensioni, sussidi, emigrazione: qual è il futuro del lavoro in Italia?

scritto da il 13 Giugno 2019

L’ultima relazione annuale di Bankitalia ci consente di raccogliere parecchie informazioni su una delle due gambe che consentono al mercato del lavoro di camminare, ossia l’offerta di lavoro. Quindi la quantità (e la qualità) dei lavoratori che offrono i propri servizi nella speranza di incontrare una domanda da parte delle imprese. È evidente che un’offerta carente è problematica quanto una domanda carente. Perciò è importante che un’economia disponga di un’offerta di lavoro adeguata, oltre ad essere in grado di occuparla per limitare la disoccupazione.

In statistica queste grandezze vengono misurate dal tasso di attività, che è il rapporto tra la forza lavoro (occupati+disoccupati) e la popolazione in età lavorativa, quello di occupazione, che è il rapporto fra il totale degli occupati e la popolazione in età lavorativa, e quello di disoccupazione, che è il rapporto fra le persone in cerca di lavoro e la forza lavoro. Utile ricordare questi concetti perché ci consentono di comprendere meglio la tabella proposta da Bankitalia, che è articolata per classi di età.

Ad esempio: è ovvio che i tassi di attività e di partecipazione più elevati si osservino nella classe dei 25-54 anni, mentre di solito la disoccupazione tende a concentrarsi nella coorti più giovani della popolazione. Complessivamente fra il 2017 e il 2018 il tasso di partecipazione in Italia è cresciuto, ma questo aumento è dovuto in larga parte all’incremento di partecipazione della classe dei 55-64enni (+1,5%), più elevato della somma della crescita degli occupati fra i 15-54enni (+1%). Non è un fenomeno isolato. Si tratta di una tendenza iniziata col nuovo secolo e conseguenza delle varie riforme pensionistiche che hanno ritardato l’età del pensionamento. “Dal 2000 a oggi – scrive Bankitalia – il tasso di partecipazione nella classe di età 55-64 anni è quasi raddoppiato (dal 30 al 57%), ed è aumentato di poco meno anche quello degli individui di età compresa tra i 65 e i 74 anni (dal 5 al 9%)”.

Ciò ha contributo alla crescita della partecipazione, che nel 2018 è arrivata al 65,2% (+0,2% sul 2017), “il livello più elevato dal 1977”. Una crescita distribuita fra uomini e donne e più concentrata nel centro-nord, dove “maggiore è l’incidenza sulla popolazione in età da lavoro degli occupati più anziani, direttamente interessati dall’innalzamento dell’età di pensionamento”.

Senonché l’arrivo di Quota 100 potrebbe arrestare questa crescita di partecipazione, se non proprio invertirla, anche perché a questa norma si è aggiunta anche quella che sospende fino al 2026 l’adeguamento biennale delle aspettative di vita per la pensione anticipata. “Nel complesso – scrive via Nazionale – le nuove norme consentono l’anticipazione della pensione minima fino a cinque anni”: Bankitalia stima che la piena adesione a Quota 100 abbasserebbe la partecipazione fino a 0,6 punti percentuali entro il 2020.

Si è detto che il pensionamento anticipato servirà a trasformare tanti disoccupati in occupati. Ma è una solo speranza. “Sulla base delle evidenze disponibili per i paesi dell’area dell’euro e per l’Italia, è poco probabile che l’uscita anticipata di alcune coorti di lavoratori più anziani possa avere ricadute significative sulla domanda di lavoro per gli individui di altre classi di età nel settore privato”. Quanto al pubblico, dipenderà dalle decisioni che verranno preso per il turnover reale e dai tempi per espletare i concorsi. Nel frattempo la partecipazione è destinata a diminuire. E non soltanto per Quota 100. Anche il Reddito di cittadinanza potrebbe svolgere un effetto dissuasivo sull’offerta di lavoro.

Sempre Bankitalia nota come “il sussidio, la cui generosità decresce significativamente all’aumentare del reddito da lavoro, potrà scoraggiare l’accettazione o la prosecuzione di rapporti di lavoro precari e non particolarmente remunerativi”. Secondo le stime della Banca, i lavoratori 15-64enni che guadagnano meno o almeno quanto potrebbero incassare col RdC “rappresentano fino allo 0,5% del totale” degli occupati. Per giunta, il “disincentivo all’occupazione si concentrerebbe in segmenti con prospettive occupazionali già limitate (persone giovani, con impieghi precari e nel Mezzogiorno), che risentirebbero ulteriormente di prolungati periodi di inattività”. Senza considerare che potrebbe incentivare forme di lavoro irregolare.

Il problema si aggrava se si osserva che all’erosione quantitativa dell’offerta di lavoro, si aggiunge quella qualitativa. Per averne un’idea possiamo guardare a quella che Bankitalia chiama “Brain drain”, la famosa “fuga di cervelli”. Fino ad oggi l’incremento della partecipazione al lavoro, iniziato dal 2011 – dopo la legge che allungava l’età lavorativa – è riuscito a bilanciare il calo dei residenti in Italia, iniziato nel 2015 e ormai in piena accelerazione. Anche nel 2018 la popolazione è diminuita di 90.000 unità (-0,2%) nonostante il contributo netto dato dal saldo migratorio di circa 190.000 persone. Ciò in quanto le uscite dal paese hanno registrato “il massimo storico dal 1981”, ossia da quando sono iniziate le rilevazioni.

Questa emigrazione, che solo nel 2018 ha coinvolto 120.000 persone (5.000 in più rispetto al 2017), nel periodo fra il 2007 e il 2018 ha provocato un saldo migratorio netto negativo per 492.000 unità. Il fatto che dovrebbe farci riflettere è che “le uscite hanno coinvolto i giovani e i laureati in modo ancora più significativo rispetto agli anni precedenti la Grande Recessione: tra i primi la percentuale è passata dallo 0,1 nel 2007 a circa lo 0,5 nel 2017, tra i secondi dallo 0,2 allo 0,4”. A emigrare non sono solo i meridionali, ma anche gli abitanti del centro e del nord.

Questo drenaggio di capitale umano ha alcuni effetti negativi per il nostro tessuto economico. Alcuni studi osservano che questi flussi in uscita, specie quelli di giovani, rischiano di ridurre il potenziale di fare impresa di un paese. I risultati di uno di questi mostrano che “l’impatto dell’emigrazione sulla creazione di nuove imprese è negativo, soprattutto per quelle con soci o manager al di sotto dei 45 anni e nelle aree del Paese con una struttura demografica più giovane. Per giunta “la relazione negativa tra emigrazione e imprenditorialità riguarda ogni area del Paese e tutti i settori, sia quelli a basso valore aggiunto sia quelli più avanzati; incide negativamente anche sulla creazione di start up innovative”.

Insomma, pensionamenti anticipati dagli esiti incerti, sussidi che “spiazzano” retribuzioni di mercato, emigrazione. Il combinato disposto di questi fenomeni agisce con profondità sulla nostra offerta di lavoro, che a quanto pare soffre per un pregiudizio molto diffuso nel nostro paese secondo il quale basta far crescere la domanda di lavoro per far funzionare l’economia. Ma è un pregiudizio che alla lunga rischia di far danni. Non è solo la domanda a creare l’offerta. Vale anche il contrario.

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