Il Decreto Crescita è il riflesso di un Paese arroccato in difesa

scritto da il 25 Giugno 2019

Co-autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –

La Camera dei deputati ha approvato il cosiddetto Decreto Crescita, notevolmente emendato ed ampliato rispetto alla formulazione arrivata in Parlamento. Adesso lo stesso dovrà essere approvato dal Senato per la definitiva conversione in legge.

Il testo finale del Decreto Crescita arriva quando sul nostro Paese sembra incombere una tempesta perfetta: la procedura d’infrazione e l’isolamento europeo, l’Ilva, i tavoli di crisi, l’avanzata del sovranismo, e forse perfino il default e l’Italexit..

E in effetti anche dal Decreto Crescita traspare (a dispetto del titolo) l’immagine di un Paese in difesa, con un tessuto industriale in sofferenza, che cerca in tutti i modi di mantenere quello che già ha. Misure per salvare Mercatone Uno, Alitalia, il comune di Roma, le banche del Sud. Altre per salvaguardare i marchi storici dalle delocalizzazioni. Un provvedimento che arriva in settimane e mesi nevralgici per la nostra economia. Paolo Bricco recentemente ha scritto della “settimana nera” dell’industria italiana, con l’esplosione dei casi Mercatone, Ilva e Whirlpool. Anche il futuro di FCA in Italia preoccupa.

schermata-2019-06-24-alle-16-04-07

Nello stesso segno sembrano muoversi le manovre in discussione per scampare alla procedura di infrazione della UE, che mostrano le evidenti difficoltà dell’Esecutivo a dispetto dei toni bellicosi.

In tutto questo il Ministero dello Sviluppo Economico sembra non occuparsi più -appunto- di sviluppo economico. Come ricorda Stefano Zamagni nel suo ultimo libro, il termine sviluppo significa togliere il “viluppo”, le catene. Ma il MISE più che liberare il sistema dalle sue catene – per cui occorrerebbero riforme strutturali e lungimiranti – sembra più che altro condannato a manovre emergenziali e di “curatela fallimentare”.

Il momento attuale è ancora perlopiù erede dei decenni precedenti, segnati dall’incapacità delle classi dirigenti. Che il nostro capitalismo abbia perso la sua linfa propulsiva non è una novità. Quel 20% di top performers che traina l’export non ce la farà da solo a reggere sulle spalle il peso della nostra economia. Ma non si può accettare un’eredità di Governo “con beneficio d’inventario”, perché si è chiamati a rispondere ai problemi prescindendo dall’origine degli stessi.

E i problemi attuali della nostra economia riguardano sia l’attrattività dell’Italia per gli investitori stranieri, sia la perduta capacità di essere un terreno fertile per la crescita di grandi imprese nazionali. E si tratta di un fenomeno che non si risolve con manovre di retroguardia volte ad arginare ristrutturazioni inevitabili, o a ridiscutere gli accordi presi come sta avvenendo nel caso ILVA.

Proprio quest’ultimo caso rappresenta l’emblema di ciò che si dovrebbe evitare. Le due forze di governo hanno presentato mozioni opposte in parlamento. Ribaltare le regole del gioco a contratti firmati non è mai una buona mossa. Non bisogna stendere i tappeti rossi agli investitori esteri che decidono di investire in Italia, ma il quadro giuridico, regolatorio e di incentivi deve essere stabile e non dettato da istinti da campagna elettorale o ripensamenti dell’ultima ora. È in gioco la nostra credibilità di economia di mercato, già fragile.

In generale, non ci si può aspettare che le sorti della crescita passino solo da un decreto. Per risolvere alcuni mali strutturali della nostra economia servono riforme di lungo respiro, capaci di attrarre investimenti pubblici e privati in un quadro di certezza del diritto. Infrastrutture materiali e immateriali, istruzione, riforma della giustizia, per citare alcuni esempi. Si obietterà che i vincoli di bilancio non consentono tutto ciò, ma il più delle volte i problemi potrebbero essere risolti migliorando la qualità della spesa pubblica e riallocando le risorse. Nella lettera recentemente inviata dal Governo all’Europa si punta il dito contro le politiche di austerità, dimenticando però che mentre le regole UE sono uguali per tutti, i tassi di disoccupazione e di crescita sono molto diversi; così come le riforme strutturali, su cui siamo in estremo ritardo.

Navigare in tempesta è tutt’altro che semplice, soprattutto quando vi sono al timone due capitani sempre più lontani fra loro. Il Movimento 5 Stelle sembra in maggiore difficoltà. I dicasteri a guida pentastellata -soprattutto Lavoro, Sviluppo economico, Trasporti e infrastrutture- sono quelli più soggetti a dure critiche da ogni parte. La Lega attraversa un momento politico più favorevole, ma ciò potrebbe addirittura accelerare l’affondamento della nave.

La prosecuzione del Governo Conte non è mai stata così fragile come in questo momento. Nuove elezioni o la formazione di nuove maggioranze parlamentari sono molto più che rumors. La crescita dalla Lega sembra imporre una scelta di campo per il M5S, che non può più tergiversare in un limbo. Ha davanti a sé due strade.

schermata-2019-06-24-alle-16-07-52

Da un lato potrebbe radicalizzarsi verso sinistra per rispondere alla radicalizzazione verso destra operata da Salvini. In tal caso si vivrebbe (ancor di più) una situazione paradossale per il governo di un paese membro del G7, con due forze di maggioranza polarizzate su due opposti estremismi. Una situazione incandescente e pericolosa.

Dall’altro lato il Movimento potrebbe invece compiere una metamorfosi, andando a presidiare il centro “istituzionale”, che è da sempre la scelta dei moderati. Si tratterebbe di una scelta in collisione con l’impostazione di fondo che ha consentito la crescita dello stesso Movimento, ma appare l’unica percorribile per un partito che vuole togliersi l’etichetta di forza di opposizione, e in fondo pure compatibile con la vocazione apartitica che ha sempre rivendicato.

Ciò significherebbe innanzitutto un cambiamento nelle politiche europee. L’Italia non ha la forza per permettersi l’isolamento in cui è piombata. L’Unione europea è vista come un agglomerato di tecnici e burocrati, ma in realtà è la politica a fare da dominus a Bruxelles, sia a livello di capi di stato e di governo, sia di istituzioni comunitarie. Le alleanze vanno costruite con credibilità e serietà, perché anche l’applicazione delle regole comuni dipendono da esse. In secondo luogo, occorrerebbe abbandonare l’infelice idea di distinguere il mondo in onesti e disonesti a seconda delle categorie di appartenenza, nonché lo scherno delle competenze troppo spesso perpetrato. Pregiudizi di fondo che si ripercuotono in alcune scelte di policy a volte inspiegabili e dannose.

Quanto sopra si potrebbe suggerire anche alla Lega, che commette gli stessi errori. Ma per il momento il radicalismo leghista sta pagando in termini elettorali e, pertanto, è più improbabile che Salvini sia indotto a cambiare linea.

Sia le attuali forze di maggioranza sia le aspiranti tali, dovrebbero comprendere che per evitare la tempesta che incombe sul Paese occorrono dosi di sobrietà e buon senso, perché altrimenti per evitare il baratro si finirà per dover fare – obtorto collo – tutto il contrario di ciò che si è propagandato. E a quel punto nemmeno lo scarico della palla avvelenata a qualcun altro – ammesso che sia possibile – servirà per l’esonero dalle responsabilità politiche.

Twitter @frabruno88