Perché insegnanti, intellettuali e artisti sono mal pagati o non riconosciuti?

scritto da il 16 Luglio 2019

La relazione entro la quale si sviluppano l’economia e il benessere di un paese è costituita principalmente da tre membri funzionali: materia prima, tempo e risultato produttivo. Questi elementi, insieme, appartengono, a una sorta di aggregazione storica inalienabile e, per certi aspetti, naturale, non altrimenti che se esistesse una tendenza inevitabile al ciclo della produzione. La memoria di ciascuno di noi, quand’anche fosse esclusivamente scolastica e indiretta, ne contiene indirettamente parecchi esempi. Già nell’Antico Testamento (RE I) si narra della sontuosa opera di costruzione del primo Tempio di Gerusalemme, per la cui realizzazione Salomone avrebbe importato legna pregiata dalle foreste del Libano, si sarebbe avvalso delle maestranze di Tiro e avrebbe impiegato migliaia di operai.

Anche se, all’epoca, non esistevano ancora un concetto di Return on Investment né, tanto meno, una misura del Break Even Point, in specie nel campo delle opere pubbliche, o, di conseguenza, della spesa in conto capitale, il resoconto storico ci impone due considerazioni. La prima: l’uso della materia prima, il tempo impiegato e il bene finito, poi distrutto e ricostruito nel caso in questione, dimostrano che la produttività è quasi assimilabile a un istinto; la produttività precede lo stesso valore aggiunto. Ed è chiaro che potremmo andare ancora più indietro nel tempo per darne prova. La seconda considerazione è la seguente: sebbene migliaia di anni fa non si redigessero bilanci, pubblici o privati che fossero, il patrimonio che il mondo ha ereditato è stato – ed è –  studiato, tutelato e ‘raccontato’ da figure professionali che, al contrario, rappresentano un importante fattore della produzione: il lavoro.

Nell’ambito della relazione descritta in apertura, lo studioso, il ricercatore, il docente, cioè coloro che permettono a un certo patrimonio di esistere, documentandone utilità e valore ed educando altri soggetti al ‘consumo’, diventano dei media insostituibili, il cui costo per la Pubblica Amministrazione è ammortato, per così dire, dal mercato della fruizione. Proviamo ad entrare nella materia viva, così da fornire al lettore riscontri tangibili!

Qualche anno fa (2009), il massimo esperto italiano di Economia della Cultura, il professor Walter Santagata, in un proprio saggio per Treccani, scrisse che “nei fatti, l’impostazione tradizionale, che si concentra sulle politiche di welfare e sulla giustificazione dell’intervento pubblico in campo culturale, comporta una sopravvalutazione delle politiche di conservazione a scapito di quelle di produzione di cultura”. A questo punto, vien fatto di chiedersi: qual è il ‘valore’ dell’insegnante di storia e filosofia dei licei che istruisce il discente circa le vicende di realizzazione d’una grande opera o le dinamiche che l’hanno resa possibile? E, soprattutto, qual è il suo ruolo all’interno della relazione tra materia prima, tempo e risultato operativo? Il sintagma economia della cultura, purtroppo, è quasi del tutto legato a musei e strutture similari, parchi archeologici e gallerie: la sua esplicazione semantica e semiotica, di cui abbiamo testimonianza mediante i report dell’ISTAT e di altri istituti nazionali di ricerca e statistica, non contempla affatto gli interpreti principali della cultura attiva, gli uomini che la producono in una certa unità di tempo, facendo guadagnare alla collettività il cosiddetto risultato.

Quindici anni fa circa, Il libro bianco sulla creatività attestava che il macrosettore della cultura valeva il 9,33% del PIL, mentre, nell’ultimo biennio, il dato ha oscillato tra il 16 e il 17 per cento. L’impennata è significativa e soddisfacente, specie per un paese che ha sempre fatto gran vanto del proprio primato culturale. A tal proposito, è bene dire che nel quinquennio 2011-2015, la cultura è riuscita a muovere quasi 250 miliardi di euro. Non è un caso, pertanto, che la percentuale di persone occupate in attività culturali retribuite, in Italia, sia discreta, se commisurata agli altri paesi dell’Unione Europea: 3,6%; siamo ancora nella parte medio-bassa della classifica, ma bisogna considerare che, in cima, si trova l’Estonia con un ‘non lontanissimo’ 5,5%.

EUROSTAT

EUROSTAT

A ogni modo, passare in rassegna quotazioni e cifre non è di certo la più utile delle attività da svolgere in questa sede perché sarebbe opportuno, prima d’ogni altra cosa, intendersi sul concetto di cultura e, in particolare, su quello di ‘cultura utile’. Se, come si dice per lo più, la moda è cultura, allora sembra davvero difficile che il tenore di vita di un designer e di uno stilista e, soprattutto, la loro capacità produttiva possano essere paragonati con quelli di un professore o di un ricercatore scientifico. Se il cinema è cultura – e conveniamo tutti che lo è –, allora è altrettanto difficile – ci si conceda la ripetizione! – che il tenore di vita e la capacità produttiva di un attore italiano famoso possano essere paragonati con quelli di un professore o di un ricercatore scientifico. Allo stesso modo, avvalendoci di questo driver comparativo, come stimiamo la produttività di una cantante lirica che solca i palcoscenici del territorio nazionale interpretando ora la Carmen ora la Traviata, dopo aver dedicato parecchi anni alla formazione e continuando, giocoforza, a studiare e perfezionarsi? E, ancora, cosa dire del teatro, di attori e registi, spesso relegati ai margini della dignità di sopravvivenza?

Analizzando i grandi numeri, con riferimento alle due aree summenzionate, scopriamo che il fatturato aggregato della moda, nel 2017, ha superato i 70 miliardi, mentre l’incasso del comparto cinema, nello stesso anno, è stato di quasi 550 milioni. Il divario è quasi ‘irrazionale’. Ampliando invece le categorie d’impatto economico, non possiamo fare a meno di trattare l’editoria, poiché dovrebbe avere, almeno in linea teorica, un ruolo dominante. Ebbene? In Italia, esistono 1.459 editori, i quali, nel 2017, hanno pubblicato 70.159 opere, determinando un fatturato di quasi 3 miliardi, secondo il rapporto dell’Ufficio Studi dell’Associazione Italiana Editori. Resta sempre irrisolto e ‘intrattabile’ il problema della risorsa umana, dell’essere umano quale motore di questa vasta e, spesso, inclassificabile produzione. Infatti, siamo pieni di dati riguardanti i musei, per esempio: sono 4.976 quelli aperti al pubblico, come riferisce l’ISTAT; nel 2015, anno record, sono stati visitati da più di 110 milioni di persone e hanno fatto registrare incassi per oltre 190 milioni di euro, ma siamo privi di dati che riguardino il presunto benessere dell’intellettuale.

ISTAT

ISTAT

Grazie ai risultati raggiunti (…il termine “risultato” riappare continuamente quale occorrenza fondamentale!), di recente, ci si è lanciati in affermazioni trionfali e sicuramente frutto di grande ottimismo e generosità: “Con la cultura si mangia”, “Quasi 2 milioni di occupati nella cultura”, “Cultura come motore dell’economia” et cetera. Se ne comprende sicuramente l’entusiasmo, ma, parimenti, non se ne può giustificare né constatare l’effettività. Comodamente e sbrigativamente, non faremmo alcuna fatica nel proporre al lettore la curva, nettamente e chiaramente discendente, della spesa pubblica per cultura e servizi ricreativi o gli istogrammi riguardanti l’incidenza sul PIL del medesimo settore produttivo, che vedono l’Italia al quart’ultimo posto nell’UE, tuttavia, così facendo trascureremmo l’aspetto più importante della questione: il fattore umano o, meglio, quello intellettuale e, in taluni casi, artistico.

Spesa pubblica per cultura e servizi ricreativi (euro pro capite, valori costanti 2010)

Spesa pubblica per cultura e servizi ricreativi (euro pro capite, valori costanti 2010)

Per dirla in parole povere: quanto prende quell’insegnante dei licei di cui abbiamo parlato precedentemente in termini esemplificativi? Consultando le tabelle fornite da FLC CGIL per amore di precisione, dato che, ovviamente, basta chiedere in giro, sappiamo che, a inizio carriera, percepisce € 1.350,00 netti, mentre, a fine carriera, € 1.960,00. In pratica, a seconda del costo della vita specifico e, di conseguenza, della parte d’Italia in cui vive e delle condizioni personali, il dubbio se cambiare lavoro in fretta e furia può assalirlo molto di frequente. Il ricercatore universitario non se la passa affatto meglio, come si suol dire. Il suo stipendio è quasi uguale a quello del professore delle scuole superiori.

Dunque: se si è in una famiglia monoreddito e si paga un normalissimo affitto, si è in condizioni di povertà relativa, pur avendo dedicato una vita agli studi. E non è necessario incomodare gli esperti dell’EUROSTAT o dell’ISTAT per venirne a capo. Un professore associato fa qualche passo avanti, giungendo a poco oltre i 2.000 euro al mese; il professore ordinario invece raggiunge la soglia dei 3.000: stiamo parlando di cifre nette, esclusi gli scatti d’anzianità.

È sconcertante, a un certo punto, apprendere che un professore a contratto, per un modulo di 30 ore, ‘rischia’ di percepire una cifra che oscilla fra i 3,75 e i 15 euro lordi per ora di lavoro: ne dà notizia un’indagine svolta dalla Rete dei Precari per la Didattica e La Ricerca dell’Università di Bologna. Un disastro inqualificabile e inenarrabile! Si può concludere agevolmente che, in Italia, chi vive d’intelletto vive di stenti e, spesso, muore di fame. E non c’è spazio per i messaggi trionfalistici e benauguranti.

Un po’ di logica elementare ci spinge a fare qualche deduzione: se studiamo l’economia o la chimica o la matematica e la nostra attività si trasforma nell’utile d’una qualche azienda, allora il nostro ruolo nella società è riconosciuto e ricompensato; diversamente, se studiamo le stesse discipline, facciamo delle pubblicazioni scientifiche e ‘insegniamo’ a chi, poi, permetterà a qualche azienda di generare utili, allora siamo considerati come una parte incidentale e indubbiamente poco rilevante del ciclo produttivo.

Qualcosa di altrettanto ‘insopportabile’ accade nel mondo dei professionisti della scrittura: l’Osservatorio sul Giornalismo dell’AGCOM (2017) e il Rapporto LSDI sul Giornalismo in Italia riferiscono, rispettivamente, che il 40% dei giornalisti italiani, nel 2015, faceva parte della fascia di reddito con meno di € 5.000,00 euro e 8 giornalisti su 10 della categoria freelance guadagnano meno di € 10.000,00 l’anno. Molti giornali non riconoscono neppure un compenso minimo, laddove molti altri si spingono a pagare il contributor con la stratosferica cifra di 3 euro per pezzo. In sostanza, si ignora totalmente il vero motore del ciclo produttivo, quello della conoscenza, sia perché la si dà per scontata sia perché non si è affatto in grado di ridurne la troppo ingombrante area imputazionale in termini di valore aggiunto.

AGCOM

AGCOM

Nel 1966, William Baumol e William Bowen pubblicarono un testo imprescindibile in materia di analisi dei valori economici dell’arte e della cultura: Performing Arts The Economic Dilemma. Gli studiosi statunitensi, entrambi professori alla Princeton University, dimostrarono che arte e cultura sono afflitte da una sorte di ‘sindrome economica’, di ‘malattia dei costi’, come venne più volte definita, a causa della quale i costi di messa in opera sono insopprimibili e, soprattutto, non si possono razionalizzare all’interno del processo d’evoluzione tecnologica.

L’azienda che si occupa di ristorazione collettiva, per esempio, può ridurre i tempi di produzione e il costo del lavoro con delle macchine che sfornano un certo numeri di pezzi in una determinata unità di tempo. Lo stesso metodo non si può applicare alla messa in scena della Carmen di Bizet o del Riccardo III di Shakespeare perché attori, autori, registi, cantanti e orchestra non possono essere sostituiti da controfigure meccaniche della produttività.

Eppure, non esisterebbe produzione, come non esisterebbero economia aziendale né, tanto meno, PIL, in assenza di coloro che, studiando incessantemente, istruiscono materialmente e concretamente la scena economica. È mai capitato che l’amministratore di un’azienda esortasse i propri manager a dedicare almeno un paio d’ore di ogni giornata lavorativa allo studio?

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